Teatro

Con Gifuni il Memoriale di Aldo Moro si fa tragedia

21 Febbraio 2020

Sembrava di essere in attesa di Caronte, sospesi in un tempo irreale, aspettando di affondare nel buio della tragedia. O della morte. Il pubblico era in silenzio, un silenzio però vibrante, percepibile. Ciascuno ricordava, forse sapeva, quel che stava ascoltando. E le parole intanto si svelavano, in aria, per quel che erano: evocazione, testimonianza, riflessione, condanna.

È stato un momento di rara intensità lo spettacolo Con il vostro irridente silenzio che Fabrizio Gifuni ha presentato in un affollatissimo Teatro Vascello di Roma.

Il lavoro è un affondo nelle carte – le lettere e il memoriale – scritte da Aldo Moro durante il rapimento, nelle mani delle Brigate Rosse.

Il caso Moro è una delle tante vergogne italiane, un mistero ormai ben poco misterioso, che mette assieme la violenza del terrorismo, l’opportunismo politico, le trame di ogni colore e provenienza, le mafie, gli scambi, i ricatti, le carriere, le falsità di un paese che era, e sembra perennemente essere, sull’orlo di un colpo di stato.

Un momento disgraziato della democrazia italiana, eppure fondante, emblematico, che rischia di svanire in ricordi sempre più sfocati, in narrazioni edulcorate e a senso unico, che sembrano interessare sempre meno. Anche per questo, forse, lo spettacolo ha avuto un breve “prologo” in cui Gifuni stesso ha spiegato, ripercorrendo velocemente la vicenda, la storia del famoso memoriale.

Poi, l’attore entra in un “ring” disegnato a terra e composto da fogli e lettere, prende una manciata di cenere e se la passa velocemente sui capelli, ricreando l’illusione della “frezza” bianca di Moro. E inizia.

Fabrizio Gifuni ha scelto – con la complicità di uno scrittore impegnato e militante come Christian Raimo e la consulenza storica di Francesco Biscione e Miguel Gotor – di affondare le mani in quel patrimonio semisconosciuto ai più che sono le “carte di Moro”. Le lettere e il memoriale – un faldone atteso, ricercato, temuto, causa di morte, poi finalmente ritrovato, pubblicato e sostanzialmente ignorato da gran parte del Paese – sono dunque il materiale infuocato che l’attore ha scelto di proporre al pubblico.

Con una accurata selezione di testi, con un montaggio drammaturgico millimetrico che alterna bene corrispondenza “privata” (le struggenti e commoventi lettere alla moglie e ai figli) ad altri documenti più teorici (tra cui le risposte che lo statista dava al “processo del popolo” imbastito dai brigatisti) a lettere politiche che Moro scriveva alla dirigenza del partito e ad alte figure istituzionali. Già, il partito: la Dc, la Democrazia Cristiana, quel partito che ha assistito impassibile al compimento del destino di Aldo Moro. Lettere sprezzanti al segretario Benigno Zaccagnini, parole incredule a Francesco Cossiga, pensieri inquietanti per i suoi collaboratori, riferimenti a Berlinguer e Craxi, domande e giudizi sull’atteggiamento oscuro di Giulio Andreotti: Moro ha consapevolezza della situazione ma non riesce a capire perché tutti lo stiano abbandonando. In un italiano bellissimo e umano, in una lingua che oggi – a partire dai politici – stiamo perdendo, Moro (si) racconta.

E Gifuni riesce a definire una partitura di tutti quegli scritti, e li affronta in una forma di “lettura” (se tale la vogliamo definire, in modo grossolano) di altissimo nitore e sconvolgente efficacia.

È fermo, l’attore, vestito di un completo grigio un po’ logoro, di fronte a un microfono, una risma di fogli in mano – che mostrerà con gesto pudico, di volta in volta, di lettera in lettera, agli spettatori, quasi a scusarsi o a rimarcarne l’evidenza – chiuso in quel ring sapientemente illuminato. Accanto, un misero tavolino e una sedia, su cui non si siederà mai. E nel vuoto cosmico di quello spazio claustrofobico, il tempo dello spettacolo aggredisce e blocca quello della vita: si rallenta, si sospende, si alterna. Torna indietro. Il tempo è quello di Moro, del suo carcere: un tempo vuoto da riempire di parole, di congetture, di ipotesi, di speranze, di recriminazioni, di sogni. Questo Aldo Moro non è un santo, né un martire, pur nella ricorrente numerologia cristiana: è un politico che ha coscienza degli errori, propri e di sistema, che sa le corruzioni e le malversazioni, che conosce i misteri insondabili della Ragion di Stato e della Democrazia cristiana, che si raccomanda e ordina. Un Moro vero e vivo anche nel momento in cui sta per morire.

Fabrizio Gifuni, straordinario per intensità e presenza, affronta tutto questo così come aveva saputo attraversare l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, con l’indimenticabile ‘Na specie de cadavere lunghissimo, che debuttò nel lontano 2004, con la regia di Giuseppe Bartolucci. Oppure come si era impossessato delle parole furiose, esplosive, incontenibili di Carlo Emilio Gadda, dalle lettere dal fronte della Prima Guerra Mondiale o del caustico e immaginifico Eros e Priapo nel bellissimo spettacolo L’ingegner Gadda va alla guerra. Sembra, il suo, un lavoro sfiancante, da Sisifo contemporaneo, un tentativo di mantenere salda la memoria collettiva nei suoi capitoli più contraddittori. Ma quel che fa Gifuni non è teatro di narrazione (che, nei suoi momenti più alti, tanto ha fatto e dato per salvaguardare la coscienza civile) quanto una ricerca insaziabile, con i mezzi del teatro, di una prospettiva critica, lucida, tesa: quasi che dalla scena possa finalmente tornare alla Polis un ragionamento complesso, approfondito. Semplicemente dicendo le cose come sono.

Non vi è pedanteria, né – tanto meno – mimesi interpretativa: però era strabiliante vedere, al momento dei caldissimi applausi finali, Fabrizio Gifuni quasi “ricomporre” il suo volto, ricostruire o ritrovare se stesso dopo essersi “perso” nella maschera e nella voce altra del soggetto narrante. Ero seduto nelle prime file, al Vascello, e ho potuto notare, durante i ringraziamenti di rito, questi piccoli impercettibili movimenti muscolari del viso che sembravano smontare la maschera scenica per restituire la persona. L’attore, insomma, non era certo il “personaggio-Moro”, ma nel farsi portavoce, tramite di quelle parole, nel metterle a disposizione di chi ascolta, al centro di quella comunità che va ricomponendosi nello spazio teatrale, diventava comunque altro da sé.

Era forse il Caronte che tutti noi in platea attendevamo: ci ha fatto ascoltare quel tempo e quegli scritti, ci ha accompagnato in un rito di memoria e comprensione. È la tragedia, una tragedia contemporanea. Le parole sono lì, sospese tra noi che siamo in platea. Basta ascoltare e provare a capire.

(Lo spettacolo è in scena al Teatro Vascello di Roma ancora fino a domenica 23 febbraio)

 

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