Teatro

Per un teatro responsabile, intervista con Claudio Longhi

28 Ottobre 2017

Da poco alla direzione di ERT, Emilia Romagna Teatro, il regista e storico del teatro Claudio Longhi ha il compito non facile di succedere nell’incarico a uno dei migliori e più attivi direttori di teatro italiani, quel Pietro Valenti che aveva fatto di Modena una delle capitali europee della scena teatrale. Ma Longhi sa molto bene il fatto suo e non si è certo tirato indietro: si chiude in questi giorni la tredicesima edizione del Festival Vie – la prima con la sua direzione, con un ricchissimo cartellone – e sta annunciando le stagioni dei teatri gestiti da Ert (oltre Modena anche la bella sala Arena del Sole di Bologna, Cesena, Vignola e Castelfranco Emilia). Naturale allora partire da qui, per capire cosa accadrà in questo nevralgico Teatro nazionale.

Dunque, Longhi, un bel festival portato a compimento e le stagioni presentate. Come vanno le cose?

«Comincia il lavoro vero! Se si immaginano un festival e le stagioni non come “catalogo” di spettacoli ma come uno o più percorsi culturali radicati all’interno di una comunità, allora il lavoro comincia davvero adesso. Non ne faccio una questione di qualità della proposta artistica ma di società teatrale e culturale. È chiaro che in Italia si lavora su un terreno per lo più bruciato, nel senso che, al di là d una cerchia non ristretta di persone interessate, quello che constato dai miei osservatori – mi è capitato di operare in contesti diversi – è una assenza del teatro all’interno della vita culturale e soprattutto della vita quotidiana di una comunità. E per l’appunto, se intendi il teatro in questa prospettiva, di percorso radicato e non di vetrina, allora c’è tanto da fare, da dissodare. Ne parlavo con Gianluca Farinelli,  direttore della cineteca di Bologna, che notava una totale resistenza del pubblico a vivere l’esperienza cinematografica come strumento di approfondimento o presa di coscienza di quel che sta accadendo. Tutto ciò, però – vorrei anche chiarire un equivoco – non significa necessariamente una intrinseca “pesantezza dell’essere”: è un sospetto “naturale”, ma non è così. Nonostante siano passati ottanta anni da quando l’ha scritto, aveva ragione Bertolt Brecht quando diceva che il vero teatro deve essere un teatro di insegnamento, ma non per questo noioso e pedante. Il piacere, il divertimento sono elementi importanti: non parliamo della crassa risata, ma del piacere che si può vivere quando si comprende realmente qualcosa. Allora, sono battaglie di questo genere che vanno combatte, con cui ci dobbiamo misurare quotidianamente: in prima battuta cercando il più ampio dialogo possibile con i cosiddetti attori culturali di una comunità, cercando di intercettare paure, desideri, aspettative delle persone che ci stanno attorno».

 

Parte del cast di La classe operaia va in paradiso, prossima regia di Claudio Longhi. Foto di Sofia Sakellaridis

Forse, questa prospettiva da lei abbracciata implica anche una necessaria “adultità” dei Teatri Nazionali, che finalmente si prendano l’onore e l’onere non solo di fare “bel teatro”, ma anche e soprattutto di ricostruire il tessuto sociale in cui agiscono…

«Credo veramente sia questa la strada. Attraverso le esperienze di “teatro partecipato” che ho condotto da cinque anni a questa parte, ossia dal 2012, ho notato un estremo bisogno di socialità che c’è nelle persone. La ragione del successo di simili formule, al di là della riuscita o meno dal punto di vista artistico – sono questioni di gusto – deriva proprio dal fatto che c’è un enorme bisogno di stare insieme. Quello che le persone sperimentano è che il teatro è strutturalmente uno straordinario “dispositivo” generatore di comunità: di fatto è qualcosa che non puoi fare da solo o vedere da solo. La dimensione politica profonda del teatro è nella dimensione di collettività, radicamento e sviluppo della comunità di cui il nostro paese ha bisogno. Ci troviamo, infatti, in presenza di un tale “sfrangiamento”, di una tale atomizzazione che, viene da dire, i vari rigurgiti politici sono espressione della perdita di senso della comunità. Da questo punto di vista, nonostante il carattere minoritario il teatro fa qualcosa: è chiaro che il teatro sia strutturalmente minoritario nella società contemporanea, anche quando riuscissimo a tornare alla dimensione greca, con diecimila spettatori, sarebbe poco rispetto, che so, al numero di visualizzazioni di un qualsiasi clip su youtube. Nonostante il carattere minoritario, dicevo, abbiano veramente una funzione preziosa per riavviare dinamiche necessarie alla nostra società. Se penso a come è stato riplasmato il sistema teatrale oggi, mi pare ci siano cose da dire: come sempre succede, scoppiano le polemiche giuste e necessarie, ma nel furor polemico si rischia di fare di ogni erba un fascio. È vero che ci sono delle storture enormi in questa struttura, è stato detto e scritto, e non mi dilungo, ma ci sono intuizioni e aperture che molto interessanti: con la stanzialità cui sono chiamati, i Teatri Nazionali hanno ampliato una vocazione legata proprio alle tematiche socializzanti di cui stiamo parlando. Credo si dovrebbe superare quell’orribile spirito di guerra tra i poveri che inevitabilmente il progressivo restringersi delle risorse ha indotto nel nostro settore – non mi riferisco solo al Fus, al Fondo Unico per lo Spettacolo, ma alle possibilità di intercettare finanziamenti diversi, male cronico del nostro teatro –, si tratta invece promuovere la ricostruzione del tessuto comunitario per il bene delle nostre città e del nostro Paese».

Claudio Longhi, primo a sinistra, alla presentazione del progetto Atlas of Transitions

 

Al festival Vie sono stati numerosi gli ospiti internazionali di alto livello, come pure si notano nomi “stranieri” nelle stagioni. Sembra che il teatro possa essere, sempre più un luogo, di incroci di sguardi e prospettive. Un luogo di apertura e dialogo, insomma, e non – come predicano in molti – spazio di conservazione dello status quo…

«Ognuno di noi è portato a ragionare dal proprio orticello. Può risultare spocchioso quello che sto per dire, ma penso che ci sia una responsabilità forte del teatro in questa prospettiva. Se dovessi spiegare che cosa è per noi l’Europa, questione controversa non avendo una identità geografica in senso stretto – siamo solo una penisola dell’Asia – se dovessi spiegarlo, farei anche ricorso al teatro. L’Europa è un posto in cui se dici Edipo non devi dire molto di più. Sono convinto che il teatro abbia avuto un ruolo determinante nel fondare l’identità culturale europea. È qualcosa che ciascuno di noi sperimenta quotidianamente, anche senza rendersene conto: non ci scomponiamo più di tanto se a teatro sento qualcuno chiamarsi Kostantin Gavrilovic, o Irina Nikolaevna, o signora Alving: fanno parte del nostro immaginario, non avvertiamo fratture. Abbiamo bisogno di Europa in questo momento, così, quell’apertura internazionale è fondamentale. Sicuramente ospitare, che so, il greco Terzopoulos o gli irlandesi Dead Center, è una proposta frutto di aperture e dialoghi culturali. In questa cornice mi piace ricordare il progetto Atlas of Transitions, New Geographies for a Cross-Cultural Europe, vincitore del bando “Creative Europe” 2017: un progetto europeo che abbiamo appena presentato, e di cui Ert è capofila, che parte da una interrogazione sull’efficacia del teatro come strumento di mediazione culturale e di dialogo in rapporto a quell’emergenza della contemporaneità che sono i fenomeni migratori. Dunque dobbiamo interrogare la scena contemporanea e il linguaggio scenico contemporaneo, per riflettere riflettere su tutto questo. Non è un caso che uno dei progetti ospitati al festival Vie è stato Talos di Arkadi Zaides, sul controllo dei confini europei fatto con un sistema di droni. Allora a che Europa pensiamo: una fortezza o una terra ospitale? Il teatro ha una sua funzione e una sua responsabilità: mi preoccupa che oggi nessuno sembra più essere responsabile di quel che sta facendo. La responsabilità è sempre di qualcun altro. Credo invece sia il momento di assumerci la responsabilità di quanto facciamo, del nostro teatro, della nostra società.

 

(nella foto di copertina, la scenografia di Il Libro di Giobbe, di Emanuele Adrovandi e Pietro Babina, produzione Ert. Foto di Claudia Marini)

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