Teatro
Claudia Castellucci e Chiara Guidi: il regno profondo del teatro
Sono arrivate le due splendide signore della ricerca teatrale, e hanno rimesso a posto le cose. A chi spaccia approssimazione, rispondono con un assoluto rigore; a chi risolve con interpretazioni raffazzonate, offrono metodo e tecnica; a chi vagheggia drammaturgie improbabili, regalano scrittura raffinata; a chi vanta pasticciate performance, mostrano una via di pulizia, nitore, efficiacia.
Loro sono Claudia Castellucci e Chiara Guidi.
Non necessitano di presentazioni ulteriori, avendo percorso buona parte delle ultime grandi creazioni della scena contemporanea con la Socìetas che hanno fondato e fatto conoscere in tutto il mondo.
Hanno presentato Il regno profondo. Perché sei qui? alla Pelanda, a Testaccio, in chiusura di Short Theatre, e l’hanno fatto con grazia, pudore, e con sorrisi quasi sopresi per i tanti applausi.
Al Festival diretto con mano felice da Fabrizio Arcuri e Francesca Corona, e gestito mirabilmente da un generoso staff, Claudia Castellucci e Chiara Guidi sono apparse come due entità astratte, o forse due fari, a illuminare – senza spocchia, senza prosopopea – la rotta per quei giovani naufraghi della scena contemporanea italiana.
Forse è il caso di dirlo: le proposte sono tante, ma non sempre brillano per qualità, intensità, prospettiva. Spettacoli sempre più contratti, trattenuti su se stessi, drammaturgie flebili, visioni manierate, autoreferenzialità o addirittura compiacimento, sono mali sempre più diffusi, a fronte di una diffusione del fare teatro che è segno, invece, di vivacità e condivisione.
C’è bisogno di teatro, ormai è chiaro: soprattutto da parte di chi lo fa. Tanto che, molto spesso, l’urgenza è tale che si va in scena senza la dovuta pazienza, la calma e il tempo necessario per dare ai prodotti una compiutezza, una qualità che sarebbe il minimo indispensabile. Tante “operine del contemporaneo” guizzano via veloci; come pesci costretti a risalire correnti tumultuose saltano e si contorcono nel luccichio di un sole pallido e declinante, tale e quale il sistema teatrale italiano.
Allora intercettare il cammino maestoso e appartato di Chiara Guidi e Claudia Castellucci è un monito, un invito a non sprecare energie e talento, a essere rigorosi e seri, rispettosi – vorrei dire – di se stessi e del teatro.
La sapienza di queste due signore si è sviluppata nel tempo e nel lavoro, nello studio e nel confronto, nell’ascolto ma anche nell’ostinazione. Così, a fronte di quanti si sentono già “maestri”, o “leader”, magari perché hanno strappato una mezza produzione a qualche stabile o vinto qualche premio, queste due artiste sorridendo passano oltre. Arrivando all’essenziale.
Su un palchetto minimale – che svelerà un meccanismo ruotante come un carillon – le due figure, imponenti e piccine, vestite buffe, gonnone e giacchetto a scacchettoni, dicono il testo. Il regno profondo. Perché sei qui? non ha bisogno di apparati straordinari.
Chiara Guidi sembra condurre: dirige la musica del verso, detta ritmi, aperture, chiusure, con il movimento della mano destra. Vanno all’unisono, a tratti si separano, giocano la voce come un soffio, in un virtuosismo di silenzi e tirate, di esplosioni e di echi cui non mancano pastosità dialettali, mezzi toni di un parlar semplice. Sembra, a voler evocare un ricordo, quel mirabile Viaggio al termine della notte, in forma di concerto spartano, quasi punk per quattro voci soliste. Ma c’è, qui, una ritrosia, una timidezza del dire che ne fa una composizione sottile, ispirata, vibrante di un candore antico. Risuona una curiosa immediatezza, che è sapiente ingenuità.
Poi, oltre la tecnica, c’è la narrazione, il contenuto. Il concerto va, con un ritmo che è respiro interno, in un crescendo che tocca apici e poi volta indietro, su di sé: Angelus Novus, parrebbe, a guardare passato e presente. Sono due “beghine”, o addirittura “megere” come si definiscono, che danno voce – leggendo da quadernini – alle eterne domande, ai dubbi, alle prese di posizione, alle paure, alle tensioni di fronte a un Lui assente, che dovrebbe, magari potrebbe, dare risposte e invece resta silente, distante. Potremmo tornare a Uovo di Bocca, a quell’incalzare di domande aspre a Dio, ma qui c’è una ironia nuova, un canzonarsi, una leggerezza del sorriso e dello spaesamento, un candore comico originale, che mette assieme lo stupore del Pastore errante dell’Asia con la miriade di rivoli di una comunicazione fuori controllo. Allora arrivano paradossali gli stacchi di pubblicità, con proiezioni sul fondo che fan vedere “parole di luce”, ossia scritte di una luce che si fa parola e che dovrebbe convincerci, educarci, indicarci: negozi qualsiasi, bar, imprese, anche il teatro Comandini (sede della compagnia a Cesena), tutto viene frullato nell’universo comunicativo della pubblicità.
Si ride a seguire i contorti e sempliciotti ragionamenti, le ripicche e le perplessità che sono dei due personaggi e di tutti. Chiedono, si interrogano sul perché del loro stare lì (qui), sulla possibilità, sulla libertà: se tutto è stato pensato che resta da pensare?
Eppure resistono, stanno ferme, girano sul giro del loro palco-carillon, a sproloquiare, a rispondersi, a cercare parole e definizioni. Si infervorano sulla legge del desiderio: che fare, che dire, che desiderare.
È un sussurro che si fa grido, ma che rimane impalpabile, suggerito appena, quasi con timore, che si libra in alto, acuto e teso, o vibra basso, grave. E c’è spazio anche per evocare, così, indirettamente, il patibolo: perché quel palchetto altro non è che un patibolo, di ferocia artaudiana, su cui farsi vincere, asfaltare, spalmare, mentre sul fondo il tessuto sonoro – di Scott Gibbons e Giuseppe Ielasi – rimanda frammenti di un comizio passato o tonfi, esplosioni, stridii.
Questa piccola cerimonia della parola e del silenzio, della domanda e della mancata risposta, è officiata con una grazia straordinaria, con una simpatia contagiosa, con la festa di chi non esita a mettersi in gioco. Ferme, pochissimi gesti, o qualche curiosa danza, millimetriche nell’interpretazione, Castellucci e Guidi a un certo punto si sciolgono dalla gabbia del testo, evocano un’altra situazione – l’interrogazione dell’una ai danni di un’altra, che diviene una fantomatica e ottusa “Paola” – salvo poi trovarsi in un finale aperto, ancor più delicato, in cui le due attrici-autrici trovano loro stesse. Niente più personaggi, come si usa adesso: non hanno molto da dirsi, Chiara e Claudia, disquisiscono su come dire “ciao”, su cosa possa esserci dietro quel “ciao”, e si lasciano, e ci lasciano, parlando di amicizia, la “base di tutto”, mentre tre colpi chiudono il gioco dello spettacolo. Da qui, auspico, da quei tre colpi, potrebbe ripartire una riflessione sul teatro di ricerca in Italia.
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