Teatro
Viaggio al Cairo per Cifet, festival di teatro con 30 anni di voglia di vivere
Torno a questa rubrica per condividere un breve “reportage” dal Festival Cifet – il Cairo International Festival of Experimental Theatre – che si è recentemente tenuto nella capitale d’Egitto. Manifestazione di respiro internazionale, capace di attraversare poetiche orientali e occidentali, di mettere assieme lingue e culture teatrali diverse, il Cifet offre ampi spunti di riflessione.
Le strade del Cairo sono perennemente invase da un traffico vorticoso. Eppure a suo modo docile, rispettoso.
Nel caldo implacabile di fine estate, i palazzoni sovraccarichi di antenne paraboliche, i parchi, le viuzze del bazaar dove la vita brulica, sono circondati da gru, scavatrici, camion che senza sosta lavorano alla costruzione di interi quartieri e di nuovi centri commerciali o di raffinate moschee.
Mentre il Nilo continua a scorrere nella sua eterna potenza, non si fermano i lavori per quel museo – il nuovo Grand Egyptian Museum – che prenderà il posto dello storico e ancora affascinante museo Egizio sul lungo fiume. Il Grand Museum, progetto architettonico dello studio Heneghan Peng di Dublino, è una immensa e raffinatissima costruzione, della quale attualmente si può visitare solo una minima parte, ma che già si impone in tutta la sua magnificenza, come continuazione (e forse specchio) del complesso archeologico delle Piramidi di Giza e della Sfinge. È l’Egitto delle comitive, dei turisti curiosi che affollano il quartiere Copto, con le sue chiese, le icone bizantine e la sua Sinagoga, ormai chiusa da un anno. O che s’incantano, seduti al caffè dove si fermava a il Nobel Nagib Mahfuz in cerca di ispirazione.
I fatti di Piazza Tahir, del 2011, sembrano un lontano ricordo e la piazza della rivoluzione è tornata ad essere l’ennesimo snodo del traffico.
A dire la parola “Italia” si è accolti subito con un sorriso, o con i nomi di quei tre o quattro calciatori che sono l’immagine pubblica del nostro paese. Nel mondo del teatro pochi sanno di Giulio Regeni o della vicenda di Patrick Zaki. Buffo però che anche in arabo “Opera” si dica così, all’italiana: e nel raffinato Teatro d’Opera, si può visitare una piccola mostra dove si omaggia per lo più la “divina” Om Kalthoum, e si ricorda ancora l’allestimento dell’Aida verdiana del dicembre 1871.
Ma Cairo sembra essere determinata a guardare al futuro, sotto l’egida del Presidente Al-Sisi, la cui effige campeggia un po’ ovunque, e della ministra per la cultura, Nevel Al-Kilany. Almeno così vuole la narrazione ufficiale.
In questa prospettiva di volenterosa apertura internazionale ben si colloca il CIFET – International Festival for Experimental Theatre, giunto alla sua trentesima edizione. Trenta anni di vita sono un traguardo importante per qualsiasi manifestazione culturale, ma l’impressione – arrivando per la prima volta in Egitto, e dunque per la prima volta a contatto con il Festival – è di una caparbia volontà di consolidare l’immagine e la sostanza della proposta teatrale.
Molti gli ospiti internazionali (dal Portogallo all’UK, dalla Tunisia alla Lituania, dal Congo alla Georgia e all’Italia, ovviamente da tutto il maghreb e il mashreq) accolti con grande calore e altrettanta opulenza.
Il Festival presenta un programma fitto di eventi, incontri, laboratori, conferenze, libri tradotti e spettacoli, circa tre al giorno, sempre affollatissimi di pubblico. Ecco: il primo elemento da mettere in risalto del CIFET è l’ampia, variegata partecipazione di spettatori, di ogni età, spesso una ressa soffocante, un vero e proprio assalto ai posti, che premia così la decisione degli organizzatori di rendere totalmente gratuito e accessibile a tutti l’ingresso agli eventi.
Gli spazi usati dal Festival, ben undici, sono i più vari, dal nodale Teatro Nazionale (attorniato da un vivacissimo mercato) al Puppet Theatre, dal Teatro dell’Opera ad altri più o meno centrali. Grandi sale, medie e piccole insomma, ma non tutte attrezzate adeguatamente dal punto di vista tecnico, seppur funzionali al disegno drammaturgico del festival. Sette giorni di spettacoli a ritmo sostenuto, offrono la possibilità di una panoramica di realtà anche tra loro diversissime. Il livello medio delle performance non è di certo altissimo: si risente, qua e là, una vaga approssimazione, il sentore di gusti estetici e soluzioni sceniche oramai datati, e forse deboli per un contesto che aspira ad essere davvero internazionale. Eppure, di fronte a certi lavori, si possono cogliere anche tracce di tradizionali forme popolari di intrattenimento. Si potrebbe evocare il Karagheuz, la maschera comica mediterranea risalente già al XVII-XVIII secolo. Oppure trovare la sapienza del Hakawati (il narratore) o dello Jawwal (raccontatori ambulanti), oppure ancora molto ampia è l’attenzione per il teatro di figura o d’ombre, che deriva dal Khayyal-al Zill del VII sec.
Un grande passato che cerca di rinnovarsi nella eterna e faticosa dialettica post-coloniale, anche attivando reti o contatti tra realtà spesso tra loro lontanissime.
Negli spettacoli visti al Cifet si respira trasversalmente il generale e diffuso desiderio di riflettere sulle dinamiche socio-politiche di affermazione del sé o di sopraffazione, di messa in discussione dei modelli economici e familiari, di sistematica verifica dei poteri e delle corrispondenti libertà, nel costante desiderio di un Altrove tutto da inventare. C’è chi si lancia in una aspra invettiva contro gli stereotipi e i pregiudizi del patriarcato, e prendeo di mira non solo le strutture sociali contemporanee ma anche i libri cosiddetti “sacri” delle varie religioni, arrivando a ipotizzare un Dio-Donna, diversa e lontana da quella Legge del Padre (e dell’Uomo) che muove tutte le religioni monoteiste. È il caso di Neci Padiri, del congolese Collectif d’Art-d’Art. Scritto, diretto e interpretato da Michael Fabrice Disanka Kabeya (in scena con la potente Christiana Tabaro Nabahya, Talu Taluyobisa Luhelo e Kady Vital Nsimba Okomo), il lavoro è un continuo rito, tra parlato e canto, alternato a vere e proprie requisitorie: si chiamano in causa liturgie religiose, a partire dall’Eucarestia cattolica, per abbattere i muri mentali e reali che mantengono l’uomo al potere.
Neci Padiri – per chi vi scrive lo spettacolo più interessante dell’intero festival – risente di ingenuità e di lunghezze eccessive, eppure ha la grande virtù di un coraggioso gesto militante, che risuona ancora più incisivo in paesi che faticano a riconoscere l’uguaglianza e l’indipendenza femminile. Gli attori-cantanti si alternano in ruoli e personaggi, mentre l’attrice determina la direzione politica del testo verso un costante gioco di affermazione del proprio punto di vista, investigando la condizione dell’essere artista e dunque “creatore-creatrice”. Il gruppo gioca insomma con una corrosiva demistificazione delle narrazioni religiose del passato, fino a cogliere quanto e come sia in quel contesto, quasi più che nel Capitalismo, che cova la potenza incrollabile del patriarcato di ogni tempo.
Ma la trentesima edizione del Cifet, presieduta da Sameh Mahran, con la solerte direzione della professoressa Dina Amin e del professor Ayman El Shiwi, è anche una competizione, una gara a tutti gli effetti. Ed è stata la rutilante cerimonia conclusiva l’occasione per ringraziare e premiare i vincitori. La giuria, presieduta dal regista e accademico Essam El-Sayed, e composta dall’attore Ahmed Kamal, dal pedagogo Giles Foreman, dalla drammaturga Asiimwe Debora Kawe, dall’attore e autore Jihad Saad, dallo storico Ezzedine Bounit e dalla critica Raluca Radulescu, ha fatto le proprie scelte. Per la cronaca, il palmares dice che il premio al migliore spettacolo è andato all’intenso e intimo For heaven sake, Icarus!, frutto di una collaborazione tra il regista egiziano Ahmed Ezzat El Alfy e il TheaterWerkstat di Hannover. Magistralmente interpretato da Khaled Raafat Mohamed Gadou e Nader Mohsen Abdelbaset – bei volti, grande intensità fisica – lo spettacolo prende spunto dal mito greco ma lo trasporta con acume in una metafora di sicura attualità. Muovendosi tra gli spettatori, Dedalo e Icaro, padre e figlio, cercano una via d’uscita dal labirinto dell’esistenza. Icaro è un ragazzone che vorrebbe vivere la propria adolescenza, volare a vedere una partita di calcio o dagli amici; Dedalo si dà da fare, le prova tutte, teme di perdere la fiducia del figlio. I due parlano, raccontano, scherzano, ricordano, anche lasciandosi andare a divagazioni molto divertenti. Lo spettacolo vola delicato fino all’amaro finale, da tutti conosciuto eppure sempre commovente.
Tra gli altri riconoscimenti della trentesima edizione del Cifet, vale la pena segnalare il premio alla regia ai giorgiani Gia Margania e Dimitri Khvtisiashvili per un Othello sapientemente adattato al mondo delle marionette; mentre l’algerina Fathy Mubarki si è aggiudicata il premio come migliore attrice per un valido Nostalgia, scritto e diretto da Lkhedr Mansouri.
E se il citato spettacolo congolese ha vinto il premio come miglior drammaturgia, l’iraqeno File 12 scritto e interpretato da Mortada Ali con un cast di sei attori, vince per scenografia e luci.
A questo aggiungo, nella mia personale classifica, la bella prova d’attrice della lituana Birute Mar (anche regista e drammaturga) per il suo solo su Antigone, peraltro segnalato anche dalla giuria.
Il Cifet si conferma così una valida vetrina che accosta oriente e occidente, culture teatrali e linguaggi diversi: narrazione, teatro di figura, teatro documento, fiction, danza si mescolano in una ricerca di identità forse ancora, per tanti aspetti, complicata, ma destinata a svilupparsi. Certo vanno velocemente risolti problemi di ordine pratico: come quello di garantire la sottotitolazione in inglese o francese per i testi arabi, in modo da consentire a tutti gli operatori e spettatori di godere appieno degli spettacoli. Cairo allora potrebbe essere davvero luogo di incontro, di discussione e dibattito non solo nel e tra il mondo arabo ma in una prospettiva di certo più ampia, mediterranea e mondiale, in modo da favorire la comprensione di specificità territoriali, linguistiche e culturali che fortunatamente non si allineano al gusto dominante ancora di matrice coloniale. Quel che si apprezza è allora la voglia di fare e vivere un teatro “proprio”, con specificità e caratteristiche che possono prescindere dalle influenze europee, perduranti nel post-colonialismo. Allora anche lo “sguardo d’Ulisse”, ossia dell’occidentale perennemente attratto dal mistero dell’”esotico”, si scontra con una realtà viva e differente. E nella Cairo cantiere di nuove strade, e forse di nuove possibilità, nonostante il pesante clima politico, anche il teatro potrebbe davvero essere uno spazio di (ri)costruzione sociale nel quale, grazie all’ascolto e alla dialettica, la civiltà e la cultura possono crescere. Tanto più quando, appena ripartiti dall’Egitto, si diffondono le notizie e le immagini delle devastanti tragedie di Marocco e Libia. Terremoti e uragani fanno pensare che, oggi più che mai, la solidarietà umana è la condizione imprescindibile per inventare il futuro.
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