Teatro

Chiara Guidi: un teatro che va nel Mondo in cerca del fuoco

19 Maggio 2018

Abbiamo incontrato Chiara Guidi a Modena, dove è ospite di ben due festival. Il primo, il vivace Festival Trasparenze, l’ha vista portare Dante tra i detenuti del carcere cittadino, con esiti davvero entusiasmanti. Il secondo, in corso in questi giorni, è l’elegante Periferico Festival, in corso in questi giorni, dove Guidi propone Esercizi di lettura per cittadini per Lettere dalla notte. In entrambi i casi, la ricerca di Chiara Guidi si spinge nei territori, misteriosi e affascinanti del “Coro”, ambito di indagine che mette al centro una riflessione ampia sulle possibilità dell’arte attorale e sui confini, ancora e sempre tutti da esplorare, della voce.

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Incontro Chiara, questa signora del teatro italiano, minuta e potentissima, negli uffici della compagnia Teatro dei Venti, organizzatrice del Festival Trasparenze: lei, già fondatrice della Societas Raffaello Sanzio, da poco finita l’esibizione in carcere, mi invita a procedere con metodo: «Facciamo un po’ di ordine!», chiede sorridendo.  Allora si tratta di procedere con cura e metodo, e partire proprio dalla presenza modenese, abbracciando subito il nodo centrale, ovvero la prospettiva del “Coro”. Cosa è un coro, oggi, per Chiara Guidi?

«Intanto voglio dire che nasce prima l’idea e in seguito nasce il coro. L’idea non si identifica con il coro. La prima suggestione di coro in atto è scaturita dall’incontro con l’opera poetica di Nelly Sachs, su invito della studiosa e organizzatrice Elena Di Gioia, che  mi aveva chiesto di mettere in voce alcune poesie. All’inizio ero abbastanza restia. Non avrei potuto dirle di sì, finché non avessi avuto una idea. Mi sono avvicinata in punta di piedi all’opera di Nelly Sachs e la cosa che mi toccava di più di questa poetessa, così esile, è che si definisce “pura voce”. Questa cosa mi ha colpito, ancora più della poesia stessa. Ho sentito fortemente questa indicazione: «Tenere morti e vivi nelle vene del linguaggio». Lei è solo “una voce”, e qui trovo l’affermazione della sua poesia: dice di sé di essere questo tentativo, questo desiderio, questa speranza di tenere i morti, ridotti in polvere, e i sopravvissuti nelle vene del linguaggio. E affida a tre cori questa idea della sopravvivenza, dell’essere orfani, dell’essere salvati. Allora, per affrontare questi tre cori, mi sono chiesta: chi può, più di un coro, dare voce a un coro? Ogni idea non nasce mai separata da ciò che c’è prima di noi, e da ciò che verrà dopo. Dunque il lavoro sulle poesia di Sachs si collega a un interesse che ho da tempo: tutti possiamo raccontare, tutti possiamo rivendicare la nostra capacità di raccontare e di ripetere un racconto. Questo raccontare è una chiave, che crea un’opposizione, un attrito rispetto all’informazione e all’intrattenimento. Chi racconta fa una scelta: deve scegliere di raccontare e cosa vuole raccontare. E il tempo del racconto ritrova la durata, l’occasione di una complicazione come la durata. Una cosa dura si ispessisce, si moltiplica, crea concrezioni. È un tempo della complessità e della durata quello del racconto».

E chi sono i “tutti” che possono raccontare?

«Tutti coloro che vogliono incontrare il Teatro, luogo dell’oralità per eccellenza. Tu sali su un palcoscenico e dici. Con un gesto, con una canzone, con una voce, con una luce. La cosa incredibile del Teatro è proprio la sua coralità, la sua forza corale: trovi senso in quel che fai, quando tutti si mettono in moto. Dunque, l’idea di armonia, di complessità nasce, tra le arti, nello specifico dell’esperienza teatrale. Le persone che vogliono raccontare, dunque, sono coloro che vogliono stare più vicini al teatro non solo come spettatori ma anche come persone che sperimentano un processo di lavoro. Sono processi di natura breve: la velocità caratterizza questi progetti-spettacoli sul coro. Con i ragazzi del carcere di Modena, ad esempio, ho lavorato in due giorni poche ore. Sono incontri, però, che vanno preparati moltissimo, ed è il lavoro che mi riguarda. Posso preparare uno spettacolo solo se l’ho già visto, scritto, sentito tutto. Prima di entrare in scena, prima di mettere in prova uno spettacolo, scrivo tutto il copione, in modo dettagliato, comprese le pause. Poi con le prove le cose cambiano, ed emergono tantissimi copioni che si rinnovano, ma la struttura resta la prima, immutata. Dunque, nel processo su Nelly Sachs, la prima istanza è stata di rivolgersi ai cittadini, chiunque, dai dieci ai novanta anni. E sono giunte tantissime persone. Ma l’idea non è nata nell’occasione, leggendo i testi di Nelly: si colloca invece in un progetto che era già in atto, nel lavoro con l’infanzia, o in Gola, altro spettacolo fatto con persone che volevano stare vicine al processo di lavoro».

Esercizi per voce e violoncello, foto di Nicolò Cecchella

Quali le caratteristiche di questi spettacoli?

«Lo spettacolo non è solo l’oggetto finito. Comunque, ogni spettacolo, anche fatto con queste persone le più varie, anche con i carcerati, deve essere perfetto. È necessaria la serietà di relazione con l’oggetto che devi mettere in campo. Però questo è il frutto di un costante, aperto, processo di lavoro. E quindi lo spettatore che vuole avvicinarsi alla scena, partecipando in un coro, entra nelle pieghe di un processo di lavoro, e vede, come dire?, la bambola dall’interno. Come facevo da bambina, quando toglievo la testa delle bambole e guardavo dentro: mi affascinava tantissimo. Si tratta, insomma, di un pubblico che si assume una responsabilità, di spettatori ai quali non rimandiamo semplicemente una “comunicazione”. Lo sappiamo bene, non possiamo sfuggire dalla comunicazione, ma questa non ha nessuna priorità».

Possiamo dire, in modo grossolano, che la Tragedia è finita quando è scomparso il coro. Come si rapporta con la tradizione, con la storia del Teatro?

«Quando recito, quando affronto il mio lavoro sulla voce, ho la sensazione di essere un coro di voci, non solo io. Mi sposto, vorrei essere cento persone. È la struttura umana. Quando l’uomo prova un’emozione o quando parla, in realtà agisce contemporaneamente su più livelli: dice, guarda, tocca, pensa, si muove. Siamo dei piccoli mondi. E l’attore non può essere l’oggetto della prospettiva di Leon Battista Alberti. Non può essere semplicemente una “infilata” prospettica. Deve essere un punto di contatto, qualcosa che si riverbera, e si completa nello sguardo di chi è presente. Chi guarda non è semplicemente colui che ha pagato un biglietto. Dobbiamo uscire da questa logica, per ricacciare il teatro in una dimensione di relazione. Per quel che mi riguarda, poi, sono consapevole che il lavoro che faccio è debitore di una eredità di compagnia. Sono figlia di compagnia. Nel nostro percorso, la voce cercata per uno spettacolo doveva rientrare in un sistema di linguaggio. Ogni spettacolo genera un linguaggio. E, in qualche modo, dovevo entrare in un’armonizzazione di struttura molto più grande, che teneva assieme tutto: la mia voce, il testo, le luci, la scena, le macchine, gli animali…».

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Foto di Chiara Ferrin

Dunque come è cambiato, se è cambiato, questo linguaggio? Dalla Lingua Generalissima sperimentata dalla Societas già negli anni Ottanta, allo scrivere per il coro, che distanze ci sono? Che alfabeti entrano in gioco?

«Dal 2006 la compagnia si è divisa in tre teste artistiche, che in questo momento hanno generato una societas che cerca anche di aprirsi a gruppi giovani. Dunque, si tratta di un perdersi, ma perdersi con il nostro archivio, con la mole di trenta anni di lavoro. Questo passaggio, questa fase di passaggio e di apertura, mi ha fatto scoprire una faglia, una nuova fase. La scrittura per la voce è metrica, tanto più se hai davanti un coro, in cui tutti devono andare all’unisono. Allora, la prima cosa da fare è tagliare le parole. Devi scoprire la parola come un pezzo di carne, tagliarla come tagli un animale. Questi pezzi devono mantenere una autonomia di significato: è l’arte della macelleria. Tagli le ali, il coscione, la spalla, ma non distruggi il pezzo. È un’ottima intuizione che ha avuto il poeta svedese Jesper Svembro: “la metrica è l’arte della macelleria sacrificale” presso gli antichi. È un aspetto che mi ha sempre interessato: la metrica che taglia la parola. Penso sia possibile coniugare il “battere/levare” delle mani, ossia il ritmo, il tamburo delle mani, al melodico portato dalla voce. La più grande difficoltà del coro è stare in un ritmo. Da sempre – ad esempio in ogni tappa della Tragedia Endogonidia – la domanda iniziale è stata: quale aria respiriamo qui, ora? L’aria che ti circonda, che va dal palcoscenico alla platea. In questa aria, l’aria si determina con un ritmo, una pulsazione. Il coro ha assoluta necessità di una metrica: più la voce ha una metrica sulle parole, più interpreta se stessa, più le parole si sciolgono. Spesso l’attore fa spegnere le parole in bocca, perché manca una visione di voce. Non sa che toni e timbri trovare. Il lavoro non è sul significato, quello va da sé. Ma c’è un altro lavoro, un altro livello di significato, ed è questa la scommessa del linguaggio. Si tratta di superare la tendenza continua di riferirsi al significato più immediato per pacificarci con quello che sta accadendo. L’infanzia ci insegna che si può fare altro: non importa “capire” tutto, si può andare oltre l’ordine del significato, che è gabbia, restringimento del senso. Ma soprattutto è un vincolo che impedisce alla persona singola di “suonare”, prima di ricongiungersi agli studi filologici. Il Dante che abbiamo portato in carcere, è un disgraziato, come me o come te, che cerca di “camminare” nei momenti difficili della vita che sta attraversando. Leggendo la commedia, l’Inferno o il Purgatorio, ai ragazzi, ai carcerati come avvenuto per il Festival Trasparenze, o ancora in contesti diversi, si avverte immediatamente la relazione forte con quel che tutti noi stiamo vivendo. Ecco la perfezione: sul piano estetico, sul piano etico e sul piano spirituale. Il nostro adattarci continuamente a delle forme, il dover sopportare delle forme, o delle condizioni, viene superata, abbandonata. Ed è interessante sentire la capacità dei carcerati di scoprire quanto ogni parola del Purgatorio li riguardasse: per tutta la vita siamo stati colpevoli, siamo là, sospesi, nel “tra”. Colgono il fatto che Dante non parla di sé, ma di tutti noi, di una umanità senza divisioni».

Nel mio misero bagaglio critico ha posto Roland Barthes, quando ne Il piacere del testo fa riferimento alla “grana della voce” . mi sembra comunque un tema che può esserle caro, quello del suo, del riverbero, della scrittura che si fa gola, carne, fiato…

«Nel lavoro di compagnia ho sempre sentito il ritmo drammatico, ho seguito il montaggio degli spettacoli, il tagliare e cucire il lavoro, i suoni nel grande percorso fatto con Scott Gibbons e dunque la voce. Mi viene in mente che tutti noi, in tutte le specificità possibili – dall’uso artigianale del legno alla scrittura critica – cerchiamo quel che brucia all’interno delle cose che vediamo. Se qualcosa ci attrae non è per la sua semplificata superficie, ma perché qualcosa ci chiama ad un ulteriore passo verso ciò che brucia: ma questo fuoco è troppo spesso dimenticato. Il fuoco, però, non è solo ciò che si fa cercare dal desiderio che porti, ma è anche qualcosa che era già lì, dimenticato. Lo cerchi perché è dimenticato. La voce, con la sua grana – anche io sento così la mia voce, una grana, dei punti – non è altro che una sonda per entrare dentro, ossia per vedere, più che le parole, all’interno. Vedere cosa succede nella mia laringe mentre leggo quelle parole. E una simile scommessa si è alzata vertiginosamente con Dante. Dante non si tocca! Non posso cambiare nemmeno una parola, non posso ripeterle se sbaglio: il suo è un vincolo totale. E con Dante faccio anche i conti con la mia esistenza, con l’esperienza, con quanto ho fatto sino ad oggi. Dante è uno “scrocco” fortissimo alla nostra vita. Altrettanto è accaduto per l’infanzia, con il Tuffo: uno “scrocco” potente. All’interno di questo spettacolo ci sono solo i bambini e gli attori, e avviene qualcosa tra loro, un segreto. Non sapevo cosa sarebbe potuto succedere quando pensavo al Tuffo, invece i bambini hanno perfettamente aderito alla proposta, agendo oltretutto in modo tale che il teatro potesse andare nel mondo, seguendo e attuando un patto fatto durante lo spettacolo. Allora, quel che preme, non più un teatro che porta in scena il mondo, ma un teatro responsabile che va nel mondo. Ed ecco che qui torna il discorso del coro: io teatrante, con coraggio, cerco il legame con gli spettatori. Per una comunicazione che passa da sguardi muti, occhi, fiducia, speranza, possibilità di mettere in campo linguaggi non abituali. Così, puoi portare anche Dante in un carcere e vedere quelle persone, che magari non l’hanno mai letto, o addirittura in alcuni casi sono proprio analfabeti, commuoversi. Allora viene da chiedersi: quanto della nostra cultura preclude l’arte?».

Foto di Chiara Ferrin

Il senso dell’essere attore, o dell’essere teatro, è farsi coro?

«Farsi coro non solo con le voci del pubblico, ma con tutta la macchina scenica, con la scrittura, con la curatela, con gli animali… L’attore deve diventare tutto in tutte le cose. Altrimenti come arricchire la tua voce se non sai provare tutte le sonorità, se non sai, ad esempio, imitare il tram che passa o il cuculo? Non serve lavorare sulla presenza, tantomeno sul nome. Per far risuonare la voce ti devi ritrarre, sottrarti e non mostrarti. Se ti sottrai, rivendichi la parte di illegibilità che ogni spettacolo deve trattenere nel suo centro, proprio come un fuoco. E in questo rientra anche il lavoro fatto in carcere: non ho intenti sociologici o riabilitativi, né pretese di fare esperienze diverse. Prima c’è la necessità che porti, e solo così senti che hai bisogno di loro: altrimenti resteremmo in un altro ambito, quello del “problema”. L’arte non risolve problemi. Almeno per la mia storia, per la mia compagnia. Fai anzi fatiche incredibili, un lavoro enorme: per quante persone? Alla fine non è l’”oggetto” da rivendicare o da vendere – tra l’altro il nostro teatro per l’infanzia ha difficoltà enormi a girare in Italia – ma si tratta di creare una durata, un altro tempo. Di portare un sentire: quello che faccio preannuncia qualcosa che deve venire. Sento che qualcosa mi chiama. Penso sia vera l’invocazione delle Muse, l’invocazione alle figlie della memoria. Queste Muse, che riguardano ogni tipo di conoscenza umana, non sono qualcosa che l’uomo decide, ma qualcosa che si volge al passato, come l’Angelus Novus, per andare verso il futuro. Un solco della tradizione che ti porta in una direzione nuova, sempre con grande attenzione per il tempo in cui si vive. Oggi il concetto di “straniero” è fondamentale, e invece la nostra programmazione scolastica è tutta incentrata sugli autori italiani: ma come è possibile? Non è contraddittorio? Dovremmo invece liberarci dai legacci, a partire da quelli del corpo e della voce. Abbiamo voci legate, non è strano? La nostra voce che è libera, invece è legata. È condannato l’attore che ha una bella voce: perché vi si appoggia e non va oltre. Al contrario, una voce non ferma è un procedere, una crescita possibile, l’occasione di una ricerca».

Si può insegnare tutto ciò?

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«Si può insegnare. Ma finché l’accademia ti esclude è difficile…».

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