Costume
Chi vive giace (secondo Roberto Alajmo)
Chi vive giace. Ribaltare il famoso proverbio dove invece chi muore giace e chi resterebbe in vita si darebbe pace è stato il paradosso semantico e scenico che ha dato vita all’irresistibile commedia nera, Chi vive giace, appunto, di Roberto Alajmo, scritta nell’estate del 2018 e andata in scena al Teatro Biondo di Palermo alla fine dell’anno, coincidendo coll’addio di Alajmo alla direzione del medesimo teatro. Un addio che il pubblico, tributandogli applausi scroscianti, ha mostrato di non gradire affatto, essendosi affezionato alle stagioni da Alajmo proposte nel corso della sua direzione. Ma vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole (leggi Comune di Palermo). Guai a dimandare.
La morte torna spesso nei temi degli scrittori siciliani perché è comunque, ossimoricamente, una presenza viva nella cultura locale, più che in altri luoghi. Che provenga da lontano, dall’antico teatro greco o dai tetri riti religiosi di un cattolicesimo estremamente teatrale, di cui le mummie dei Cappuccini sono la scenografia più impressionante, o che sia l’incontro giornaliero dovuto alla guida spericolata in moto di un irresponsabile ventenne a tutta velocità nelle strade congestionate o no di una metropoli siciliana, è relativamente importante.
Varie sono le dimensioni che si intrecciano in quest’opera di Alajmo, scambiandosi continuamente in una contraddanza onirica ma allo stesso tempo tangibile, come se la morte si potesse toccare, che colla morte ci si potesse danzare, pranzare, discutere, e pure giocare, comodamente, a casa propria. Tutto, peraltro avviene in un interno, anzi in due interni che poi si fondono in un terzo interno che li comprende entrambi e che disorienta e stupisce i protagonisti. Perché tutto avviene all’interno di noi stessi, siamo noi che sentiamo le voci usate, le voci della pubblica opinione, siamo noi che immaginiamo scenari e situazioni. Tutto è dentro il labirinto nella nostra scatola cranica.
La vicenda è semplicissima e sembrerebbe quasi banale. Un giovane marito perde la moglie perché lei viene investita per fatalità da un guidatore distratto, un ragazzo di vent’anni. Il marito non riesce a farsene una ragione e inizia a colloquiare colla moglie defunta in una dimensione totalmente surreale e comica in cui entrambi parlano di ciò che è stato interrotto; il marito non sa se vendicarsi o perdonare. La pubblica opinione (siamo in un quartiere popolare) vorrebbe la vendetta ma il marito è indeciso. Il padre del giovane, dal canto suo, nel suo spazio, ha un problema grosso anche lui: non sa se giustificare l’incidente commesso dal figlio per la casualità della disgrazia oppure obbligarlo a chiedere scusa al vedovo.
E qui entra in scena la moglie-madre dei due, in sedia a rotelle, defunta anche lei ma che in vita di sicuro era una che diceva sempre la sua e senza alcun dubbio si faceva ciò che voleva lei. Anche da morta la sua volontà è imperiale. Tutti insieme dialogano, i morti coi vivi, i vivi coi vivi e i morti tra loro, in un’esilarante e surreale conversazione dove i luoghi comuni, cosa dirà la gente, e l’onore e la disgrazia e tutti i valori tipici di una società popolare siciliana sono messi in gioco anche se ognuno può sentire i propri morti e non quelli dell’altro.
E questo dialogo coi propri morti è ciò che prima o poi tutti hanno quando perdono qualcuno di caro, sia esso mentale o materiale. Alajmo rompe il tabù dell’afflizione e rende scenico quel colloquio, permettendosi pure di prenderlo in giro, presto contagiando col suo umorismo nero l’intero teatro: all’inizio il pubblico ha quasi timore a ridere, perché è tutto talmente grottesco e, in un certo senso, triste, che ridere sembra ancora blasfemo. Ma dopo tre o quattro battute surreali il riso emerge irresistibile perché è la sua dimensione, il ridicolo delle convenzioni che resiste anche dopo la morte e che tutti, vivi e morti, almeno in questa commedia, vogliono abbattere.
Tutto è quindi giocato con ironia magistrale da Alajmo, dal regista Armando Pugliese e dai cinque bravissimi attori, Roberta Caronia, David Coco, Claudio Zappalà, Roberto Nobile e una strepitosa Stefania Blandeburgo nel ruolo della madre che mette bocca in tutto anche da morta.
La lingua usata da Alajmo è l’italiano, naturalmente, ma la cadenza musicale è quella dialettale palermitana che segue una sua musica e un suo ritmo interno, coi tipici intercalari di una lingua viva e teatrale, come il ricorrente “mischina!” detto a ogni piè sospinto dalla madre in direzione della sposa incidentata, che suona come il leitmotiv della commedia. Mischino! o Mischina! o Mischini! (che tradotto in italiano significherebbe: poverino, poveraccio, cosa gli è capitato!) a seconda di come viene intonato nella calata siciliana può voler dire molte cose, dal sincero o dissimulato compatimento all’ironico disprezzo al caustico canzonamento, ma nel caso in questione ha un effetto ironico e surreale assicurato.
Come un Pirandello comico che così comico non è mai stato, Alajmo sdogana il tabù della morte, volgendo tutto in leggerezza, come è capace di fare lui e pochi come lui, dipingendo quasi un Trionfo della Morte senza l’aspetto macabro, facendola apparire per ciò che è, una parte normale della vita.
Idoneo il commento musicale di Nicola Piovani.
© Massimo Crispi 2019
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