Teatro
Chi ha qualcosa da dire, parli ora!
Il nodo, ancora, è la drammaturgia.
Mai mi troverò ad abdicare all’idea che un teatro – il Teatro, ogni teatro – debba “parlare”, dunque comunicare. Parlare del e al tempo presente, che sia attraverso il passato o il futuro; parlare di noi per quel che siamo.
Parlare, ovviamente, non significa “dire tutto”, né necessariamente comunicare attraverso l’eloquio: parliamo in tanti modi, utilizzando mille segni, transitivi e intransitivi. Eppure quel parlare è, per me, consustanziale al teatro. E il parlare, in scena, implica una riflessione sul segmento complesso e inafferrabile della drammaturgia.
Abbiamo attraversato anni – decenni – in cui il palcoscenico si era fatto vetrina, per vetrinisti illustri, inseguendo, per dirla grossolanamente, il modello di Bob Wilson.Immagini a non finire, avvolgenti e sconvolgenti, eppure quel teatro visivo e visionario riduceva troppo spesso lo spettatore a un voyeur, sigillava di silicone lo schermo luminoso della quarta parete, ovattando o negando le parole. Lavori bellissimi, per carità, ma – per parafrasare Ignazio Buttitta – le parole “non figliavano parole”. L’afasia della ricerca era dietro l’angolo quando, per una serie di eventi, è cambiato il vento.
Mi rendo conto di procedere per generalizzazioni, o addirittura per provocazioni, seguendo il filo di una riflessione ampia e dunque inevitabilmente confusa o contraddittoria. Ma insisito.
Il percorso del regista Thomas Ostermeier, chiamato giovanissimo a dirigere la Schaubhüne di Berlino, divenne emblematico: la regia ritrovava attori consapevoli, drammaturgie originali e dialogo diretto con lo spettatore. Shopping and Fucking, del 1998, fu l’epifania simbolica di un teatro di ricerca che tornava, accelerando, a parlare del presente, non solo a sognarlo o a illustrarlo.
In Italia, dunque – a parte ovviamente tutti coloro che già investigavano la drammaturgia cercando di allargarne le maglie –, anche il giovane teatro di “ricerca” ha provato a confrontarsi con la parola, addirittura con il racconto, intercettando anche una forte vocazione politica. Mi piace ricordare come – anche qui simbolicamente o a titolo meramente esemplificativo – la nota compagnia riminese Motus titolasse un suo lavoro di svolta The plot is the revolution, evocando il percorso dello storico Living Theatre e la cara Judith Malina: è stato il coronamento di una trasformazione avvenuta.
Da qualche anno, insomma, i “gruppi” si cimentano sempre più con la parola, non più e non solo con la messa in visione delle idee o delle più intime suggestioni. Bene, dunque, ci siamo! Finalmente il teatro-immagine incontra il teatro-di-parola?
“Anche sì”, come si dice in giro, ma con dei distinguo.
Mi pare, infatti, che ci siano non poche difficoltà, quasi che si proceda (anche qui generalizzo, perdonatemi) per approssimazioni successive, per tentativi, per guizzi e ritorni, o per fallimenti eclatanti. Il performer non sa più parlare? Chi sa portar la voce, al giorno d’oggi? E soprattutto, chi ha qualcosa da dire?
L’attualità, inutile ricordarlo, offre spunti a iosa, fioriscono come margherite tragedie degne del miglior Eschilo o di John Webster. E non sarebbe male affrontarle di petto.
Di fatto, però, troppo spesso mi imbatto in spettacoli che hanno il respiro (drammaturgico) di una puntata di qualche sit-com americana: magari sono belli a vedersi, ma non dicono nulla, non agguantano il reale, non “figliano parole”, ovvero non suscitano analisi, dubbi, strascichi commenti, discussioni. Troppo spesso gli autori-registi-attori parlano a un pubblico già d’accordo, già consenziente, già addomesticato alle impervie vie della ricerca. Troppo spesso, la necessità rinnovata di una “confezione” accattivante, che sappia anche circuire o reinventare quel pubblico – a lungo snobbato dal teatro di ricerca – è intento predominante, condizionante.
Ecco allora che la strada di questa “drammaturgia di ricerca” mi appare sempre più faticosa.
A chi scrivono? Cosa scrivono?
Non mancano esempi interessanti, condivisibili o meno: da Carrozzeria Orfeo a Fausto Paravidino a molti altri, però mi capita spesso di non esser convinto di quel che vedo e soprattutto sento.
Così, ad esempio, al bel Festival Primavera dei Teatri, di Castrovillari, a fronte di indiscutibili successi di pubblico e critica, alcune prove mi sono sembrate fragili proprio nella prospettiva drammaturgica.
L’ottimo Saverio La Ruina (in scena con Cecilia Foti), dopo un’infilata di capolavori in forma di monologo, ha allestito Polvere, uno spettacolo fatto di quadri da un inferno familiare che la bella interpretazione non ha salvato da una struttura narrativa piuttosto manierata. Da La lezione di Ionesco a Martha di Fassbinder, il rapporto di coppia con crescente, maniacale violenza di lui e lenta, lentissima, presa di coscienza di lei è stato raccontato in mille modi: purtroppo Polvere – al di là della intensa prova degli attori – non aggiunge molto a quel che già sappiamo.
Si perde sul lungo respiro anche La Beatitudine di Fibre Parallele: inizio folgorante, sviluppo contortino, esito disarmante. Il gruppo pugliese, sempre famelico di nuove strade da percorrere, mette assieme disagi di coppia e amor materno, handicap fisici e mentali, proiezioni e introspezioni, dialetto e dizione, sesso e metateatro. Ci agguantano subito, promettono molto, le Fibre Parallele con la forza di Licia Lanera che si fa dolente aggressività, ma, almeno per quel che mi riguarda, il collage è sembrato farraginoso e piuttosto prevedibile: nella ricercata eccentricità, quelle figure che dovrebbero essere cariche di pathos si svelano macchiette appena abbozzate, come quel mago cui spetterebbe il compito di svelare e districare i destini altrui. E non scalda né risolve la pila di piatti che appare in scena dall’inizio e che, neanche fossimo in un ristorante greco, sappiamo già che si schianterà a terra a pezzi, facendoci rimpiangere i primi Leo&Perla o Jan Fabre dell’indimenticabile She was and she is, even: insomma, i cocci della famiglia, per quanto animati da urgenze autobiografiche, sono ben più aguzzi di quelli messi in scena da Fibre Parallele.
Infine il bel lavoro di Mario Perrotta sulla prima guerra mondiale. Bravo, lui, bravissimo: lo sappiamo da anni. In Militeignoto-quindicidiciotto allestisce il racconto del fronte e delle trincee: la novità consisterebbe nel fatto che il monologo fluttua da un dialetto all’altro, da nord a sud (ahimé, manca il sardo, eppure la brigata Sassari ebbe un ruolo non irrilevante). Però, passato lo scalpore gaddiano della babele linguistica, dopo cinque minuti la storia si svela l’ennesima vicenda dei fantaccini sinceri, degli ufficiali fanatici e dei generali ottusi. Un anno sull’altipiano di Lussu o La Grande Guerra di Mario Monicelli avevano già detto tutto. Come per La Ruina, come per Licia Lanera, anche per Perrotta il pubblico di Castrovillari regala grandi applausi, e le tante recensioni confermano il successo. Ne siamo felici e registriamo il fatto.
Ma intanto continuo a chiedermi come risolvere – se mai si risolve – il problema della drammaturgia del contemporaneo.
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