Teatro
Chi è il re? Musella-Mazzarelli e il serial shakespeariano
La suggestione di leggere Who is the king? – complesso progetto produttivo della compagnia Musella-Mazzarelli con La Pirandelliana, Teatro Franco Parenti e MarcheTeatro – in chiave di serialità, è certo intrigante. Autorizzata dagli stessi registi, che intendono mettere in fila alcuni drammi storici di William Shakespeare, quella di trattare il classico al pari della “serie Tv”, come fosse un House of Cards ante litteram, è senza dubbio una chiave di accesso divertente.
Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI, Riccardo III – questi i titoli messi in programma – attraversano un secolo cruento di storia inglese, e si sviluppano e si intrecciano con ritmi da cui gli sceneggiatori hollywoodiani hanno ancora tutto da imparare.
Ma non possiamo però accontentarci del paragone tra le fiction e il corpus shakespeariano, e per quel che mi riguarda non sto a spenderci altre parole: di fatto, poi, sono stati i tragici greci a inventare la serialità, con le tragedie concatenate (ci resta solo l’Orestea, ma mi sembra un esempio significativo). Questa, allora, più che una prospettiva critica, può essere letta semmai come una coraggiosa scelta produttiva. Chi oggi ha il coraggio di affrontare tali testi, e per giunta in stretta sequenza?
Dunque: bene, produzione coraggiosa, complessa, di ampio respiro, rara in questi tempi contratti e veloci. È quel che conta.
Riflettiamo allora su quel che succede, al di là della prospettiva seriale in Who is the king?, ovvero sull’esito scenico, nello spettacolo. Abbiamo visto al Teatro Vascello di Roma la prima parte del complesso progetto, che raduna e mixa Riccardo II e Enrico IV. E già c’è molto da dire.
In una struttura scenica semplice e funzionale, a tenere le redini della proposta sono gli interpreti. Un nutrito cast, diseguale ma con vette d’eccellenza, guidato dagli stessi Lino Musella e Paolo Mazzarelli, registi e (validissimi) drammaturghi. L’impianto è semplice si diceva, ma non per questo facile. Riccardo II è opera ostica, sfuggente: il gruppo l’affronta puntando a una serietà d’insieme, a un rispetto che servirà, forse, anche a collocare l’azione, il linguaggio, i personaggi.
È politico, il teatro di Shakespeare, lo sappiamo bene: e mai come in queste tragedie l’autore si occupa della Corona, della legittimità del potere. “Chi è il re?” ci si chiede giustamente sin dal titolo: da intendere quasi come “chi” e “perché” si è re. E la domanda non è indifferente, abbraccia l’identità e la legittimità dello scettro. Tra potere e amore, tra onore e comprensione, tra consapevolezza e dignità si gioca il prestigio della corona. Anche un usurpatore può diventare re legittimo, purché “degno”. Ma l’equilibrio tra gli estremi deve mantenersi: il potere senza amore è dittatura, l’amore senza potere è vano (e lo sapranno bene Prospero o il duca Vincenzo di Misura per Misura).
È attualissima questa riflessione: oggi cosa è il potere politico? Chi lo detiene? In base a cosa? È legittimo l’eletto, solo in quanto eletto, come “unto del popolo”? E, in definitiva: è possibile il regicidio, o quanto meno la non ubbidienza a una legge iniqua?
Capite bene che addentrarsi nei meandri di questi testi di Shakespeare porta con sé un grumo di dubbi e di domande da far tremare i polsi. La compagnia le affronta, seriamente e appassionatamente: non c’è risposta, come deve essere in teatro, ma ulteriori domande.
Forse, in questo oscuro Riccardo II di Musella Mazzarelli, servirebbe un maggior ritmo, una tensione più affilata, per rendere al meglio la storia d’onore e di fedeltà.
Intanto però noi spettatori entriamo a corte, capiamo i risvolti poco chiari e poco nobili della monarchia. Poi, con uno scarto scenico interessante, che non sto a svelare, passiamo alla vertigine di Enrico IV.
E qui si dipana uno degli altri temi cardine di Shakespeare: il rapporto padri-figli. Gran parte del canone del Bardo affronta, direttamente o indirettamente, questo aspetto. Padri esigenti e figli debosciati, incomprensioni, scontri, rivolte sono il leit-motiv di tante opere. È la difficile eredità, il passaggio di consegne, il mantenere il buon nome e la dignità del Padre, l’arduo compito dei figli. In Who is the king? questo aspetto emerge con grande forza e consapevolezza, complice la presenza di due attori di chiara fama: Massimo e Marco Foschi, padre e figlio, strade diverse ma carriere brillantissime. Qui si scambiano ruoli, si confrontano, si abbracciano. Sono emblema e incarnazione dello scontro e dell’incontro generazionale. Massimo Foschi, classe 1938, pur saldo della sua storia teatrale, non esita a mettersi in gioco. È un cardine. Accanto a lui cresce con feroce adesione Marco Foschi, forse alla sua prova più convincente: senza ammiccamenti né indulgenze, dà grande spessore e una varietà di tinte al suo Enrico pseudocriminale (ma che sarà re, come Enrico V), contrapposto all’inquieto Percy, affidato a Giulia Salvarani, brava ed elegante attrice, ma troppo fragile en travesti per questo complesso ruolo.
E nell’Enrico, si sa, esplode Falstaff. Il gigantesco Fastaff, l’Amleto alternativo, certo meno noioso e pedante del pallido prence. Il compiaciuto, rutilante, sbruffone, pallonaro, comico, commovente Falstaff, il buffone amato da Verdi. Da quanto non lo vedevamo sulle scene italiane? Nell’interpretazione assoluta, in abiti moderni, di Lino Musella, il celebre Falstaff si impossessa di tutto e tutti, con la sua pancia pre-ubuesca porta vita e cialtronaggine. È una vetta, o un baratro, di verità e sostanza.
In tutto ciò, si tiene piuttosto defilato Paolo Mazzarelli, bravissimo attore, che però troviamo legato a sue modalità interpretative che rischiano di diventare ripetitive: forse l’impegno da regista e drammaturgo lo fa rischiare poco, mentre potrebbe e dovrebbe sperimentare di più in scena. Si segnalano anche il puntualissimo Annibale Pavone (a me ricorda un grande come Serge Reggiani) e Laura Graziosi, mentre vanno a fasi alterne gli altri.
Non tutto fila, non tutto è risolto, ma importa poco: lo spettacolo arriva con forza. E al finale, ovviamente “aperto”, grandi applausi del pubblico, sinceri e condivisi. Aspettiamo, dunque, i prossimi capitoli. In fondo non è questa la forza delle “serie”? tenerci attaccati per sapere come va a finire, anche se lo sappiamo già. E Shakespeare l’aveva capito benissimo.
(La foto di copertina è di Salvatore Pastore)
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