Teatro

Teatri, la riforma Franceschini sbanda su carte bollate e raccomandazioni

4 Giugno 2015

Non si capisce più quel che sta succedendo. Da mesi il teatro italiano è sulle spine per l’annosa e complessa vicenda della riforma voluta dal Mibact e dal ministro Dario Franceschini. Una riforma, legata al decreto “Valore Cultura” che doveva essere – sulla carta – la tanto attesa sistemazione di un settore da decenni senza una Legge-quadro, e che invece si sta rivelando, mese dopo mese, un progetto fisarmonica, capace di allargarsi o stringersi a seconda dell’esigenza del momento. Il guaio, allora, sono le buone intenzioni e le impossibili realizzazioni.

Al ministero è attiva un Commissione Prosa che migliore non poteva esserci, fatta da esperti rigorosi, attenti conoscitori del teatro italiano in tutte le sue sfaccettature. Ma la Commissione, che sta facendo questo lavoro gratuitamente, con dedizione e impegno, paga il dazio di un confronto non solo con le farraginosità della riforma, ma anche con le “regole non scritte” che incidono, sappiamo quanto, nel Bel Paese.

Così capita – almeno è quanto si sente dire – che alcune strutture fatte uscire dalla porta rientrino dalla finestra: per via di ricorso legale (è il caso dell’annunciato ricorso al Tar del Teatro di Genova) o per altre vie fatte di “pezze” e “pecette” messe qua e là per voler di chi sa chi.

Prendiamo ad esempio la questione dei cosiddetti “Centri di produzione”. Già lo scorso 22 maggio, un ottimo organizzatore come Franco D’Ippolito, sulle pagine di teatroecritica.net raccontava di alcuni importanti teatri ovviamente scontenti di essere esclusi dall’elenco dei centri. Oggi, a quanto pare, secondo affidabili indiscrezioni, quegli stessi teatri sono stati nuovamente inseriti nell’elenco, senza nemmeno far ricorso. Si parla di strutture importanti: dal Carcano di Milano al Diana di Napoli, dallo storico Vittoria di Roma (con la compagnia Attori&Tecnici) al CRT di Milano fino al gruppo Pupi&Fresedde.

Se le voci sono fondate, verrebbe da chiedersi, allora chi (e come) decide i termini di questa riforma. Se le indicazioni della Commissione Prosa andavano nel senso indicato da D’Ippolito giorni fa, ora gli esiti potrebbero essere altri.

Noi, culturalmente e politicamente, siamo sempre stati per l’inclusione piuttosto che per l’esclusione, per l’uguaglianza sulla differenza, per la solidarietà a scapito della diffidenza.Dovremmo dunque gioire: tutto è bene quel che finisce bene. Forse però in questo caso non vale la regola del “più siamo meglio stiamo”. Anzi.

Al di là del fatto che una “selezione” andava (e andrebbe) fatta a tutti i livelli della teatralità italiana – ancora troppe le rendite di posizione, troppi gli imbucati, troppi i saldi legami con i partiti a scapito della qualità – le cose si fanno più delicate con questa riforma.

Il guaio è, infatti, che per quel che riguarda i finanziamenti, il budget per i centri è uno, ed è lo stesso: aumentando i soggetti che devono attingervi, ovviamente diminuisce la quota procapite. Allora arriviamo a far contenti pochi, e scontenti molti.

Questa riforma “tutta numeri” sta svelando molte, troppe, contraddizioni interne, tanto da snaturare i buoni propositi iniziali: tra sorprendenti atti di fiducia e prospettive già superate dalla realtà (tanto per dire alcune: pensiamo alla “obbligatoria” multidisciplinarietà; alle “scuole di teatro” imposte ai Nazionali anche laddove non ce ne sarebbe bisogno; alle compagnie stabili annunciate ma che ancora non si vedono) qua si rischia di far impazzire ulteriormente un paese teatrale già stremato.

Se pure si possono accettare decisioni “politiche”, vorremmo fossero in direzione di una politica sana, capace di guardare al futuro. Forse mi sbaglio, forse le cose andranno magicamente bene, ma sembra, invece, che non si tenga conto delle differenze geografiche – una politica che si dice di sinistra dovrebbe intervenire decisamente a sanare le disuguaglianze, anziché prenderne atto –; che non si voglia investire davvero sul ricambio generazionale né  gratificare chi davvero in questi anni ha lavorato. Alla fine, la tanto attesa riforma rischia di tramutarsi in un guazzabuglio da sanare con carte bollate o eterne raccomandazioni.

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