Teatro

Cechov tra Atene e Hollywood

11 Marzo 2018

La riscrittura di Cechov è diventata, ormai, un genere letterario. Non si nega a nessuno: credo che ogni bravo italiano abbia, nel cassetto, una propria variazione del Giardino o di Tre sorelle. Negli ultimi anni ne abbiamo viste, e sentite, di tutti i colori: il ritorno di fiamma del teatro italiano per la drammaturgia del grande russo è passato dall’haute couture al prêt-à-porter. Giri l’angolo e come niente ti imbatti in Kostja, che ti racconta i suoi problemi con la mamma o della voglia di far teatro.

Dall’adattamento alla riscrittura, poi, il passo è breve. Dopo quella pietra miliare che fu Vanja sulla 42esima strada – adattamento filologico ancora imbattuto – sono molti, infatti, i coraggiosi che hanno declinato la partitura verbale ed emozionale di Cechov in ogni dove e come. A volte con successo, altre meno.

Spesso, peraltro, con la tendenza non di innalzarsi a quegli immortali personaggi, quanto a “far scendere” loro – Irina, Olga, Arkadina, Nina, Astrov, Firs, Trofimov, Trigorin e tutti gli altri – a farli scendere, dicevo, al nostro livello, a renderli non tanto e non solo “nostri contemporanei”, ché lo sono già, quanto semmai, pari a noi, con le nostre nevrosi d’adesso, i nostri dubbietti momentanei, i nostri complessini. Sembrerebbe proprio una scorciatoia, una proiezione più che non un’immedesimazione, uno studio di se stessi invece che del personaggio. Ma tant’è. Sono convinto che lui, lassù, un po’ si diverta e un po’ si disperi, come ha sempre fatto davanti al teatro.

Certo è che quei suoi testi vibrano più che mai, soprattutto in tempi di crisi. Sono come mappe millimetriche, ovvero indicazioni preziose, dunque moniti e suggerimenti: sono un invito alla comprensione del genere umano. Lo sapeva, Anton Pavlov, che il mondo sarebbe crollato: capiva quanto quegli esserini spersi nell’infinita campagna russa pativano, sognavano, amavano, soffrivano inutilmente. Di lì a poco nulla sarebbe rimasto, se non l’eterna, immutabile, pasticciona natura umana. E quegli uomini e quelle donne che lavorano, si fanno continuamente i conti in tasca, parlano di soldi, di proprietà che si vendono, di capitali che scompaiono, di rubli che mancano sono – siamo – noi. La crisi è diventata uno stato emotivo, l’economia connota l’identità, il debito segna la personalità. Lo scriveva Marx con lettere di fuoco, lo raccontava Cechov con il suo sussurrare lieve e scanzonato.

Dunque è più che giustificato, e giustificabile, far ricorso al Maestro, anche se la tendenza, o l’esigenza, rischia di diventare moda, abuso, velleitaria predisposizione a saperne più di Cechov. La cosa buffa, poi, è che in simili riscritture le parti che di solito funzionano meglio sono quelle in cui nulla è stato cambiato, quelle in cui parla ancora il testo originale. Quei testi, quelle anomale commedie, sono meccanismi perfetti: si tratterebbe semmai, di trovar novità lì dentro, all’interno dei “paletti” messi dall’Autore e non di riscrivere a capocchia. Perché, quando accade, si danno anche risultati disarmanti.

Allora con certa diffidenza sono andato, ad Atene, a vedere l’ennesima variazione su temi cechoviani. La vita teatrale della capitale greca, si sa, è vitalissima: nonostante le scarse economie, nonostante i rubinetti dei finanziamenti pubblici siano chiusi da tempo, il teatro è ricco di talenti e di pubblico che non rinuncia, non ha mai rinunciato, agli spettacoli. E così ci si arrangia a tutto, pur di andare in scena, confidando sullo sbigliettamento e sulla qualità dei prodotti.

Da sinistra Kostas Chatzdimitriou, Emilia Vasilakaki, Miltos Samaras

Così, mi sono messo in fila, nel foyer open air (il clima lo permette anche in inverno) del piccolo e vitale teatro Mixanis per vedere O Cechov Fovos (Il Cechov Muto), di cui si faceva gran parlare in città, opera originale del giovane drammaturgo Elias Maroutsis, messa argutamente in scena da Εsther Andre Gonzalez. Siamo nel quartiere Keramikos, popolarissimo e povero, eppure in questa zona ci sono tante diverse sale teatrali – tra cui, poco lontano, cui il prestigioso Attis Theatre di Theodoros Terzopoulos – che si alternano a ristorantini, case abbandonate, palazzi distrutti e negozi cinesi.

Cechov muto, senza troppe pretese intellettuali, è una fantasia, uno scherzo tagliente, una “comica”, è il caso di dirlo, su temi cechoviani. Maroutsis si immagina nientemeno che Olga Knipper, la famosa attrice che fu moglie dell’autore (c’è uno struggente carteggio tra Olga e Anton), che nel 1929 decide di tentare la fortuna a Hollywood. Si imbarca per l’America e vi arriva, però, in piena crisi: tutti i produttori con cui aveva contatti sono sull’orlo del fallimento. La donna cede alle lusinghe di due spiantati attori, che puntano ai suoi soldi. Lei, forte dell’infinito patrimonio del marito scomparso, non si rassegna e decide comunque di farne un film.

in primo piano Emlia Vasilakaki

Ma il cinema è muto! Che se fa della drammaturgia originale? Non si possono dire quelle belle battute! Così, giocando sapientemente tra “realtà” e ripresa cinematografica, i bravissimi attori vanno e vengono da improbabili set da cinema in bianco e nero degli anni venti: e con i ritmi, gli sguardi languidi, le pose del Muto, girano un improbabile “Zio Vanja incontra le tre sorelle nel giardino dei ciliegi mentre un gabbiano vola via”. Un pastiche, insomma, esilarante e commovente, che pure mantiene trama, sostanza e languori degli originali cechoviani evocando però Charlie Chaplin o Buster Keaton.

E, tra canzonette d’epoca (Puttiin’ on the Ritz o Dream a little dream of me o musiche che accompagnano le comiche tutte suonate live al pianoforte) e svenimenti, baffi posticci e boa di struzzo, vale la pena sottolineare la prova attorale di Emilia Vasilakaki, Miltos Samaras, Kostas Chatzidimitriou e il musicista Kostas Kakouris.

Nell’epilogo, il senso di questa leggiadra “comica”: oltre la crisi, oltre le truffe, gli opportunismi, gli egoismi, i fallimenti individuali e collettivi, è importante continuare a sognare, a fare teatro, a inseguire le “Nuove forme”, a pensare all’amore, ai baci, al quel minimo di solidarietà umana che ci salverà, forse, – come ironizzava lui, Anton Pavlov – da qui a trecento anni. La poesia, a volte, salva la vita: a Olga Knipper sbarcata in America o agli improbabili attori morti di fame, proprio come ai tanti ateniesi (e non solo loro) stretti dalla crisi economica della Grecia di questi anni.

 

 

 

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