Teatro

C’è futuro per il Teatro? Qualcuno ci pensa?

22 Febbraio 2019

Questo articolo è apparso sul numero nove, ottobre 2018, di Il Teatro e il Mondo, rivista della Fondazione Toscana Spettacolo con la direzione di Curzio Maltese, che ringrazio.

Lo ripubblico integralmente, anche se qualche mese è passato, perché alcune domande mi sembra siano ancora valide.

 

 

Che teatro sarà? È possibile parlare di futuro a teatro?

Bisognerebbe essere Rob Brezsny, o quanto meno chiedergli come fa il teatro a continuare a vivere da 2500 anni senza mai invecchiare troppo. Dalla Atene del V secolo a.C., il teatro continua, in aggiunta, ad attrarre pubblico. Ha del miracoloso. Ecco, forse questa è una previsione che possiamo fare. Nonostante quelli che son soliti ripetere “il teatro è morto”, “il romanzo è morto”, “la musica è morta”, siamo ancora qua, a incantarci per la rabbia di Antigone, a piangere per i figli di Medea, o sognare con Giulietta o a ridere come matti per le astruse idiosincrasie di Arpagone.

La scena italiana ha passato anni complicati e faticosi, aspettavamo l’attuazione della legge di settore e invece abbiamo un nuovo governo.

Cambieranno le cose? Ci saranno i soliti tagli del Fus, il fondo unico dello spettacolo che sostiene il settore? Staremo a vedere.

Intanto, come in astrologia, si sta aprendo il nuovo ciclo triennale (chissà dove sarà Saturno! Sarà contro? E Urano?).

Fatti i programmi, riconosciuti e finanziati – chi più chi meno – si tratta di rimboccarsi le maniche e produrre, ancora, nuovo teatro. Quanto nuovo? Tra innovazione e tradizione, tra vecchi maestri e giovani rampanti, qualcosa, per forza di cose, si muoverà.

A vederla in generale, però, il futuro dà da pensare: come Madre Coraggio i nostri teatranti continuano a tirare il carretto sotto le bombe del presente. Chi si ferma è perduto: c’è da far progetti, rispondere ai bandi, gareggiare ai premi, provare a distribuire spettacoli, intercettare gli amministratori di turno, provare a coniugare fantasia con economia.

Ma, così, a naso, mi sembra di poter dire, citando Ennio Flaiano, “coraggio, il meglio è passato”. Nella guerra di tutti contro tutti, soprattutto di poveri contro poveri, mi sembra sempre un po’ mortificante, per un lavoratore – qualsiasi lavoratore –  dover dipendere dalla vittoria o meno di un “bando” per poter lavorare. Tant’è: hic rhodus hic salta. Troveremo una normalità in questa perenne frenesia?

C’è da augurarselo, soprattutto per quanti, ed è il caso di chi il teatro realmente lo fa (attori, attrici, registi, scenografi, tecnici, danzatori, coreografi, costumisti…) devono per forza rispondere ai criteri ormai resi “sacri” del botteghino.

La commercializzazione del teatro non è un male assoluto, figuriamoci: siamo d’accordo, senza pubblico non c’è scena, senza prodotto i progetti sono evanescenti. Ma non possiamo non registrare un’eccessiva corsa verso la “managerialità”, verso il “sold out”, verso valori economici che non sempre si confanno alle dinamiche creative e poetiche del teatro. Vado ripetendolo spesso: l’Hernani di Victor Hugo fu un grande successo di botteghino; gli spettacoli di Grotowski prendevano vita in un teatrino di appena 13 file. Del primo non si ha più notizia, i secondi hanno cambiato la storia del teatro. I numeri, insomma, non sempre fanno la qualità. Anzi.

E sarebbe molto bello se, per il prossimo futuro, la “valorizzazione” di dati quantitativi, come le “alzate di sipario” o simili, non penalizzasse la necessaria, furiosa iconoclastia di tanto teatro, emergente o emerso. Oggi, purtroppo, i giovani artisti non si presentano parlando di poetiche ma in quanto “under 35”: il teatro italiano ha talmente introiettato i parametri ministeriali, regionali o comunali che le proposte di declinano in base alla categoria di appartenenza. E la poesia, l’arte, la rivolta? E la follia? Rientra la follia nelle griglie ministeriali?

“Mah”, risponderebbe con un sorriso sornione un maestro come Giuliano Scabia. Lui di poesia e di volontaria marginalità se ne intende. È un gigante del nostro teatro, e sa bene che il futuro passa per le piccole cose, per le conquiste minimali di ogni giorno, per le scoperte inattese che illuminano strade sconnesse.

Allora come sarà il futuro? Il teatro, si sa, è arte dell’assoluto presente, del famoso e retorico “qui e ora”. Semmai guarda al passato, con struggimento o meno. E nei confronti del futuro non nasconde un certo compito imbarazzo. I greci, ai loro tempi, risolvevano con gli indovini: Tiresia e Cassandra erano là apposta, a predire quel che sarebbe successo. Ma pochi li ascoltavano, mostrando un disinteressamento, una ottusità, o la famosa hybris che veniva sistematicamente punita. Chi non si preoccupava del futuro, di solito, finiva tragicamente. Perché il futuro è una bestiolina strana, difficile da agguantare. Ma che non dovremmo trascurare. Soprattutto la politica, che del futuro dovrebbe fare il proprio orizzonte. Invece viene da chiedersi come saranno le cose da qui a dieci anni: ma pochi provano a rispondere.

Che teatro lasceremo ai nostri figli?  A noi vecchi “materialisti” che alla distopia ci ostiniamo a preferire l’utopia, pensare il futuro significa mettere in pratica azioni, volgere in pratica quotidiana la prospettiva del riformismo.

Fortunatamente, registriamo azioni, reazioni, fughe, percorsi alternativi: in Italia, ad esempio, fiorisce il teatro ragazzi, oppure il  “teatro sociale d’arte”, ossia tutte quelle esperienze di grande creatività che nascono in contesti di disagio sociale, con esiti però di alta qualità artistica. Il carcere, l’ospedale, la malattia mentale, l’handicap fisico, l’immigrazione, sono tutti ambienti in cui fiorisce il teatro, in maniere inaspettate e potenti. E forse in questi territori, lontani dalla Politica e dal governo ma vicini alla Polis e alla gente, il teatro guarda tanto al futuro, immaginando anche modelli creativi – registici, drammaturgici, attorali, spettatoriali – nuovi e diversi. Ambienti, insomma, dove l’idea di teatro è ancora paradigma di una visione inclusiva di società e di lotta contro ogni genere di discriminazione. Dove il teatro la musica, il cinema, la letteratura, l’arte in generale, sono assolutamente in controtendenza rispetto a un Paese che sta esprimendo una politica aggressiva, razzista, chiusa. Ma quanto resisteranno, queste esperienze, a fronte alle bordate razziste di Matteo Salvini? Lo sa, Salvini, che c’è il teatro?

Ma ci sono quegli artisti, i registi, gli attori e le attrici, che resistono e agiscono, che indicano strade nuove, che schiudono possibilità, che invitano a cammini e confronti. Inutile fare i nomi: per fortuna sono tanti. C’è un mondo fuori dal Palazzo della Politica. È curioso: il partito di maggioranza al governo è nato da un ex attore comico, Beppe Grillo, uno che la sa lunga in fatto di palcoscenico. Viene da dire che se la “Politica” guardasse in modo più serio e rispettoso a questo “spettacolo”, forse ne trarrebbe giovamento. E probabilmente non solo la politica ne uscirebbe meglio, ma anche il nostro Paese e forse anche il futuro degli italiani.

 

 

 

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