Teatro
Castrovillari festival, il teatro fiorisce in Primavera
A Castrovillari il passaggio tra stagioni si respira nell’aria. La “Primavera dei Teatri” prepara ai mesi di caldo che verranno mentre si guardano gli spettacoli per scrutare il futuro: nello stesso modo in cui si leggono i fondi del caffè. Si decodificano le rughe degli anni come i segnali del cambiamento. D’altra parte questa è zona protetta, un po’ lontana dal mondo e i suoi rumori, tale da permettere uno sguardo più disponibile a cogliere le mutazioni in atto. Da oltre venti anni è un avamposto in un’area di confine, ai piedi dell’imponente massiccio del Pollino, tirato su con ostinata passione dai tre di Scena Verticale, Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano che, anche stavolta, hanno disegnato -dal 27 maggio al 4 giugno- un percorso su quello che in parte fermenta e si agita in Italia nell’ambito del contemporaneo. Sedici i debutti assoluti, quattro anteprime, altrettanto le coproduzioni e tre progetti internazionali. Teatro, danza e musica, performance, un seminario prestigioso con il teatrante argentino Rafael Spregelbund. E poi molte residenze: da “Atto Bianco” della danzatrice e coreografa Roberta Racis, “Stimmung” di Noemi Dalla Vecchia e Matteo Vignali, “Smart Work” di Armando Canzonieri, “La Consagración de nadie” di Gonzalo Quintana e Micaela Fariña. Ma non solo allinea come pezzi di una mostra gli spettacoli, ma dà vita a dibattiti, presentazioni di libri e incontri. Maturano nuove amicizie, inedite collaborazioni etc. in modo più facile che altrove. Persino la critica, presente in maniera robusta, sembrerebbe più incline al confronto e ad aprirsi. La sensazione è quella di stare dentro un tempo cangiante. A metà strada come evidenzia anche quello meteorologico: nuvole al mattino, brontolii di temporale a pranzo, sole e nuvole il pomeriggio, brezza leggera la sera, notti umide con qualche acquazzone.
L’aria è comunque dolce sul far della sera, mentre gli adolescenti riempiono le panchine e le sedie davanti a bar e pizzerie della via Garibaldi, simile a un boulevard parigino, per via degli ampi marciapiedi, qua e là in travertino calcareo. Nè strilla o schiamazzi, ma solò un brusio leggero come un volo di api. Chiudono le botteghe e i negozi che si affacciano anche sulla centrale via Roma, mentre si illuminano le vetrine di pub e caffè e davanti ai teatri Vittoria e Sibari si formano le code degli spettatori. C’è anche un nuovo spazio, il teatro dell’Autostazione, che sta nel luogo dove stavano le Ferrovie, come testimonia una solitaria e sconsolata locomotiva a vapore. Una classica storia del Sud. Lo spezzone ferroviario ha unito dai primi del Novecento fino alla soglia degli Ottanta Lagonegro a Castrovillari e Spezzano Albanese collegando così il sud della Lucania al nord della Calabria. Parte di un progetto nato nel 1882 – e sul quale si sollecitava l’intervento del Regno- che puntava al congiungimento con la linea per Eboli, Salerno e Napoli. Proposta accolta venti anni dopo, realizzata nel 1915, e a scartamento ridotto, per tarpare le ali a possibili ampliamenti. Dopo diverse vicissitudini, tra cui il bombardamento degli Alleati nel 1943, il tratto venne chiuso nel 1978 e soppresso l’anno successivo. Non è difficile spiegare in soldoni come nasce una questione meridionale… Quanto poi, tutto, a cominciare dalla cultura è così difficile da costruire. In questo senso Castrovillari si percepisce orgogliosamente curiosa, con trasparente dignità.
Una città ancora in mezzo al guado come molte del Sud, divisa e combattuta tra le radici di una terra amata quanto maledetta, un passato di povertà, dominazioni (aragonesi, angioini…) e malgoverno. Ma grande è pure la voglia di crescere, come testimoniata da più di un ventennio la rassegna, punto di riferimento per l’Italia e un territorio come quello calabro che attende la nascita di dieci, cento Castrovillari.
Fioriscano altre Primavere dunque. Anche se non sempre tutte le rose fioriranno. Ma che c’entra? Ciò che conta è vedere il primo raggio di luce, certificarne l’esistenza e intraprendere il viaggio. Parla del territorio, unendo popolareggiante a teatralità, rispetto per le tradizioni ma anche disincanto “Via del popolo” , opera di uno degli artefici della “Primavera”, l’attore Saverio La Ruina: un racconto da seguire fino all’ultimo. Un pezzo di bravura autobiografico costruito da tessere che si incastrano come parti diverse di uno stesso mosaico in cui La Ruina, mette insieme romanzo generazionale, saga familiare e storie di quartiere: il tutto esposto in modo fluido davanti ad un pubblico complice che lo conosce e lo abbraccia come figlio e concittadino.
L’inizio è da antologia. La Ruina si aggira in notturna con un amico tra i marmi e le lapidi del cimitero scoprendo e commentando nomi ed episodi. Una piccola Spoon River fatta di umanità e raffinata comicità. Così si passa senza soluzione di continuità alla fotografia del nucleo familiare che un giorno carica le proprie cose, lasciando il villaggio nei monti per approdare nella città dalle luci colorate. Il cambio di vita è l’apertura di un bar nella via centrale di Castrovillari. Tutto attorno un ricco repertorio umano fatto di artigiani, commercianti e piccole storie. C’è il proiezionista, Tonino il macellaio, Giovannino l’antennista… gli amori mai nati e dichiarati. E poi ci sono i ragazzi dei Settanta, ballando il lento “A Wither Shade of a pale” dei Procol Harum, ascoltando il rock e andando alle manifestazioni fino al 1978 “l’anno in cui il movimento finì”.
La Ruina alterna e intreccia i pezzi del racconto come si infilano gli steli di giunco nel costruire i cestini. Ci sono gli amici e le figurine di una cittadina che poi è come il nido. La madre, chiesa e casa e il padre che una sera incredibilmente non torna. La ricerca disperata, l’ultima rasatura… C’è davvero tanto in “Via del Popolo”, ritratto di molta Italia del Sud quanto del Nord. La scoperta del mondo, il dolore, la vita. Uno spettacolo che si ama subito senza tentennamenti.
Come d’altronde quello di Dario De Luca. Altro componente di Scena Verticale che mette in scena, accompagnato dall’ottimo Gianfranco De Franco, un “cuntu” lussureggiante, fatto di anima e passione popolare. “Re pipuzzu fattu a Manu”, fiaba che incanta. Narra di una regina che un bel giorno il marito decide di costruirselo da sola, con le proprie mani, impastando assieme zucchero e farina… Un racconto che sa di terra e tempi lontani. Chi invece appare in equilibrio precario tra teatro popolare e performance d’arte sono i napoletani Putéca Celidònia che hanno presentato in prima nazionale una originale rilettura del beckettiano “Giorni Felici”: cioè “Felicissima Jurnata”, drammaturgia e regia di Emanuele D’Errico. La tenace ostinazione a vivere di Winnie, la protagonista principe impersonata con piglio autorevole da Antonella Morea che vive in una sorta di installazione: l’attrice è sepolta fino al collo nella sommità di un cono blu che lascia intravedere al proprio interno l’architettura minima di un basso napoletano (e il “basso” è oggetto nella prima parte di una serie di registrazioni raccolte sulla strada). Dentro la costruzione vive come un paria il marito Willie (Dario Rea) che non parla mai e si occupa delle faccende di casa. Efficace il gioco di trasparenze che, a chi scrive, ha ricordato l’arte del mai dimenticato Antonio Newiller, visionario attore del Teatro dei Mutamenti: questi sapeva costruire con arte teatrale sopraffina e gioco delle luci immagini evocative (vedi ad esempio “Desiderio preso per la coda” di Falso Movimento, regia di Mario Martone, del 1985). In questa piéce che si rifà a “Giorni felici” la sensazione finale è di trovarsi davanti ad una vita senza significato, frutto di lunga attesa, dove la quasi totale assenza di comunicazione tra Willie e Winnie è segno di una società in preda all’angoscia della solitudine.
In fondo è l’identico senso di desolazione e vuoto che occupa il mondo -secondo il drammaturgo irlandese- in grado di produrre alienazione e incomunicabilità, a tenere legati i cuori e la creatività di diversi lavori teatrali visti a “Primavera dei teatri”. Un fatto che alcuni attribuiscono alla scia lunga del lockdown e alla difficoltà di ricostruire rapporti e vite dentro quella che era ritenuta, fino a prima del 2019 , la cosiddetta” normalità”. L’impressione, in realtà, è piuttosto quella di assistere a un blocco creativo, una malcelata incapacità nel sintonizzarsi di nuovo con il mondo e da qui il bisogno di cercarsi alibi dentro lavori poco comprensibili, autoreferenziali e con rara e scarsa capacità di commuovere sollevando interrogativi sull’umana esistenza.
Paradigmatico in un certo senso di tutto questo, in un tempo spostato rispetto al nostro presente, è un libro scomodo e per certi versi di culto quale è “The Lonely City” della scrittrice Olivia Laing, eletto libro dell’anno, quando uscì nel 2017, da New Stateman, Guardian, Observer, Telegraph, Herald, Irish Times, Times Literary Supplement etc… tradotto l’anno successivo in italiano con il titolo “Città sola” per i tipi di Saggiatore. Un volume in cui è svolta in modo meticoloso una indagine dentro la solitudine dell’arte da Andy Warhol a Edward Hopper. Sono pagine di forte interesse che fanno riflettere. Ed è forse con questo intento che Lisa Ferlazzo Natoli, regista dell’ensemble lacasadargilla (in cui collaborano assieme a spettacoli, progetti e installazioni professionalità diverse) abbia voluto portare in prima a “Primavera dei teatri” il monologo “Città sola”. O meglio il reading. Un lunghissimo reading che ha sfiorato l’ora e trenta di durata, con l’artista sola sulla scena a segnare con il gesso, su due lavagne, i capitoli volta per volta estratti dal libro della Laing e proposti leggendo da un tablet. Sono le lucide e drammatiche foto di artisti soli nella grande Mela, dal già citato Warhol all’artista attivista David Wojnarowicz ammalato di Aids. Una “mappa” delle solitudini d’arte selezionate con attenzione dalla scrittrice che nel racconto filtra pezzi di autobiografia e casi incredibili come quello di Henry Darger, esponente di spicco della Outsider Art. Alla sua morte i proprietari di casa scoprirono un incredibile manoscritto, “The Realms of Unreal”, corredato da centinaia di acquarelli. E poi il cantante pop di origine tedesca Klaus Nomi, anche contraltista, chiamato da David Bowie per il “Saturday Night Live” della rete Nbc. Sono questi i personaggi le cui vicende danzano davanti agli occhi e la mente degli spettatori che per novanta minuti hanno ascoltato la lettura della Sferlazzo. Cos’era quindi alla fine, oltre a una immersione dentro solitudini d’arte, una sorta di recall per riprendere l’abitudine alla lettura?
E c’è chi la “lonlyness” la sceglie addirittura come main theme musicale e nei titoli di coda di una piéce intitolata “La Sindrome delle formiche”, regia di Massimiliano Burini e Daniele Aureli che ha curato anche la drammaturgia per Occhisulmondo, la compagnia che per l’occasione ha arruolato due bravi attori come Ciro Masella e Giulia Zeetti. Credibili e con i nervi a fior di pelle nei panni di una coppia che scoppia, o sta per scoppiare. Gesti frenetici e abbastanza schizofrenici di una quotidianità che può sfiorare il massacro. Scenografia all’osso, un piccolo appartamento al terzo piano di un condominio non proprio socievole. Si trascorre il tempo in modo estenuante per decidere l’uscita da casa per andare a festeggiare un compleanno. Il tutto ruota attorno all’interrogativo: “le persone decidono di non lasciarsi, o decidono di stare insieme?”. In altre parole l’amore c’è ancora o è diventato tran tran e surrogato di qualcosa d’altro? Intanto Sergio Endrigo nella bellissima “Canzone per te” scelta come colonna sonora informa che “la solitudine che tu mi hai regalato la coltivo come un fiore”. Un po’ di Ionesco, un tocco di minaccia alla Pinter, con la polvere che cade misteriosamente dal soffitto e poi la caccia alle formiche, ed il gioco è fatto. In ogni caso Endrigo ancora insiste: “… chissà se finirà, se un nuovo sogno la mia mano prenderà, se a un’altra io dirò le stesse cose che dicevo a te…”
La solitudine epica. Penelope 1.
Alla “Primavera dei Teatri” il mito femminile per eccellenza, quello di “Penelope”, visto dalla promettente regista, attrice e drammaturga Martina Badiluzzi che ne ha affidato la sua personale lettura alla solida presenza attorale di Federica Carruba Toscano, disegna un atto unico diviso in due. Intrigante e artisticamente magnetica la prima parte, molto meno convincente la seconda, al culmine di un’ora di elucubrazione e autocoscienza al femminile, partita in rarefatta sordina, poi cresciuta parossisticamente, sino a diventare prigioniera nel gioco di smontaggio e conseguente deflagrazione del mito stesso, dopo essere stato portato ai minimi termini.
Accovacciata in una poltrona di pelle, circondata da sette ventilatori d’acciaio collocati ad altezze diverse, Penelope è fotografata all’inizio come la donna che aspetta un uomo, Ulisse, che non torna. Si è allontanata dalla sacra stanza comune dove il marito, eroe di Troia, aveva costruito con le sue mani il giaciglio nuziale: ora sta nei corridoi, zona franca per liberare se stessa e poter pensare. Lentamente rilegge la propria esistenza, fantastica sul futuro a tu per tu diretto con i sentimenti. Rivede lo stato di reclusa in casa, circondata dai Proci pretendenti. Rabbia e coscienza. Federica Carruba Toscano incrocia i due destini: diventa Circe e acceca Polifemo fino a legarsi al palo della nave e trasformare l’incontro con le sirene in un balletto onirico e sensuale. Un pranzo in ristorante in riva al mare evoca la fine di un rapporto, la voglia di una sessualità vissuta davvero. Del racconto omerico ben poco però è rimasto: al suo posto c’è ora una Penelope differente e lontana. Che tumulto ha messo in moto questo transfert? E’ la presa d’atto definitiva che la mancanza dell’oggetto del desiderio certifica la propria solitudine?
In “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes osserva come “È la Donna che dà forma all’assenza, che ne elabora la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta; le Tessitrici, le canzoni cantate al telaio esprimono al tempo stesso l’immobilità (attraverso il ronzio dell’Arcolaio) e l’assenza (in lontananza, ritmi di viaggio, onde marine, cavalcate).”
Penelope 2. “LidOdissea”
“Ulisse non era un astuto e valoroso eroe, era un porco. Finiamola una buona volta e diamo il porco a chi è porco, porca miseria! Me lo dite chi glielo aveva detto al signor Ulisse delle mie ciabatte di fare il navigatore, lasciando la moglie e il figlio e restando lontano da casa per tanti anni? E mentre quella poveretta di Penelope, rimasta sola, doveva lottare e soffrire per difendersi dalle insidie dei mille Proci, che cosa faceva il signor Ulisse? Navigava, oh Dio, mi diverte sapere quel che faceva il signor Ulisse… navigava, ma figuriamoci! Tutti siamo capaci di navigare nei frangenti coniugali extra”. Totò (Antonio De Curtis) nel film “L’uomo, la bestia e la virtù”, 1953.
Un’altra Itaca. Quella immaginata da Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari (con la collaborazione di César Brie) è la cronaca di una giornata di una famigliola che passa al mare le vacanze estive. Penelope è quasi scomparsa dalla scena. Azzerata. Non è più la moglie che attende da anni il ritorno dell’eroe bensì madre preoccupata del figlio Telemaco (Ludovico D’Agostino) e poi mogliettina premurosa del marito spiaggiato al Lido al termine di un lungo vagabondare. Dopo aver volato come un’ape, di fiore in fiore, da Circe a Calipso. La trasformazione è quella da mito immortalato nel poema di Omero a un mélange di epica e quotidiano. Intreccio tra narrazione sacra e ironico riferirsi alla contemporaneità, anche quella più vicina ai nostri giorni, dove talvolta la tentazione è di farsi prendere la mano e, magari, uscendo dai binari abituali di una comicità allusiva – che non impedisce la satira- rischiare l’orazione.
Gianfranco Berardi è comunque attore che sente come pochi il palcoscenico e il pubblico, e da bravo capocomico assume su di sé l’intero fardello di guidare la nave, dove sale anche un aedo non vedente (Silvia Zaru). D’altronde è pur sempre Ulisse che di mari ne ha solcato ed è anche –Dante Alighieri docet- il prototipo dell’uomo moderno. Come tale appare anche nella spericolata versione di “LidOdissea” in cui è sensibile alle scosse sismografiche della nostra società. Così, anziché godere di privilegi e gioie nell’essere tornato a casa si percepisce la sua fibrillazione per il viaggio che gli occupa la mente e il cuore. Singolare infatti che nella pièce sia entrata una figura che rimanda a Tiresia, l’indovino non vedente (costui ebbe secondo i miti una figlia di nome Manto, pure lei indovina). Ulisse lo incontrò nell’Ade -vedi il canto XI dell’Odissea– e questi predicendogli il futuro lo avvisò: una volta rientrato a Itaca dovrà partire di nuovo e non smettere di vagabondare.
Eschilo in miniatura. Seguendo il mood, oggi molto in auge del ritorno alla classicità, a “Primavera dei teatri” è stato presentata la più antica tragedia del mondo “I Persiani” scritta da Eschilo, frutto di una collaborazione che vede unico interprete in scena l’attore Silvio Castiglioni e l’apporto scenografico dei Sacchi di sabbia, canti di Marina Mulopulos e sound designer Gianmaria Gamberini. Castiglioni mette in rilievo ciò che già nell’opera eschilea è bene in evidenza: ossia l’assoluta assenza di ogni trionfalismo di quella che fu, sicuramente per gli Ateniesi, una pagina memorabile nello scontro con Serse, il potente re dei Persiani, la cui armata finì miseramente sconfitta tra i flutti nella celebre battaglia di Salamina. Eschilo ambienta la tragedia nella reggia di Susa dove il re si presenta al suo popolo sconfitto. E comunque degno di pietà. Castiglioni ha un tavolo davanti a se dove muove dei piccoli oggetti, una sorta di piccoli pilastri, come fossero i personaggi del dramma greco. Una messa in scena da osservare dall’alto che però per via della disposizione dei posti a teatro ha difficoltà a seguirsi con profitto. Sicuramente lo spettacolo _ che conosce anche momenti di forte fascinazione come le decine di barche illuminate nel mare di Salamina _ risulterebbe più leggibile con una disposizione del pubblico a ridosso della scena teatrale, magari a corona, come avviene negli spettacoli di un grande manipolatore di piccoli oggetti quale è David Espinosa autore di opere straordinarie di microteatro come “Mi Gran Obra” e “Much Ado about Nothing”.
Chi, al contrario, utilizza bene gli oggetti in scena, servendosene in modo impeccabile è Giuseppe Provinzano in “Storie di noi” dove teatralizza un testo delicato ed emozionante scritto da Beatrice Monroy: il racconto dei due mesi più oscuri della città di Palermo e della Sicilia (e pure dell’Italia) -quelli che vanno dall’attentato al giudice Falcone a Borsellino– dal punto di vista della gente e di quei ragazzi che quel giorno udirono con terrore quel boato nel centro della città Le bombe uccisero i magistrati siciliani, uomini chiave nella lotta alla mafia, massacrati perché troppo pericolosi per un establishment che sfugge, ieri come oggi, a ogni tentativo di lettura. Lo spettacolo fotografa all’inizio un uomo che gioca in scena con una palla mentre lo segue, passo dopo passo un’auto radiocomandata. Sul palco giace la mappa della città palermitana, qualche lumino tremolante e pezzi di stoffa disposti casualmente per poi essere stesi in alto per diventare schermi su cui proiettare immagini in bianco e nero. La scenografia, pur nella sua essenzialità, trasmette il livello di dramma consumatosi in quei giorni. Materia di narrazione per l’unico personaggio narrante sul palco e che gioca fino in fondo sul filo dell’ambiguità. Chi è costui? Da che parte sta? Ha qualche segreto da nascondere?
Il racconto è in parte inedito. Quello dei cittadini comuni che hanno vissuto come una ferita alle loro esistenze gli attentati di Capaci e di via D’Amelio. Coscienze messe a dura prova. Ritornano i ricordi e quelle immagini che a qualsiasi età, restano impresse per sempre. Chi viveva praticamente gomito a gomito con quei killer che si mescolavano alla gente comune e non riesce a capire dove si trova la sorgente del male. Ma anche l’importante capacità di reagire e dire “basta” di tanti, tantissimi cittadini. Mai dimenticare. Fondamentale e importante coltivare la memoria. E questo testo -l’unico esempio di teatro civile presentato a Castrovillari– ha il carattere dell’urgenza. Serve a porre quesiti, a farsi nuove domande ora che apparentemente il Moloch mafioso sembra in sonno. Ma lo è davvero? E dove ha trovato rifugio per continuare i suoi loschi affari? Giuseppe Provinzano si conferma teatrante di spiccata sensibilità sociale. Anni fa, quasi solitario esempio, mise in scena un potente lavoro teatrale sul G8 di Genova. Uno spettacolo che gira ancora e mette a nudo responsabilità precise del potere politico del tempo. In “Storie di Noi” , giunto dopo quel gioiello di “combat theatre”, Provinzano mostra una crescita notevole come attore e teatrante capace di conciliare assieme passione civica e teatro.
La “Primavera dei teatri” è stata anche danza naturalmente ed ha ospitato tre realtà italiane da seguire con attenzione, al di là delle singole prove.
La prima, dando la precedenza al richiamo classico, a quanto pare di moda pure tra i danzatori, è Quotidiana.com, mini compagnia familiare di Roberto Scappin e Paola Vannoni che con “I greci, gente seria! Come i danzatori” – insignito lo scorso anno del Premio Dante Cappelletti di Tuttoteatro.com– ha messo in pista una coreografia di passi minimi ed essenziali, quasi un pre riscaldamento. Movimenti al limite della no-danza accompagnata da un insieme di considerazioni surreali e interrogativi sul rapporto danza, corpo e filosofia. Il tutto porto con pungente ironia fatta di dialoghi e di no sense che incuriosiscono e divertono. I movimenti e le parole dei due danzatori sembrano paradossalmente quelli di una stralunata coppia Laurel-Hardy che da un momento all’altro potrebbe suscitare una risata. Chiusura energica e inattesa con “The Bitter End” dei Placebo. Più trasgressivo di così…
Manco ad averlo programmato! Proprio nei giorni in cui la Apple, nella sua factory di Cupertino ha presentato il suo visore di realtà mista, ossia non solo virtuale, e che nelle intenzioni di Tim Cook, il ceo della Mela, in futuro dovrebbe diventare un device che produrrà e consumerà nuovi contenuti arriva lo spettacolo di Castrovillari. Qualcosa di avveniristico e inquietante allo stesso tempo: cioè la coreografia di “Welcome to my funeral” della compagnia barese di Equilibrio dinamico diretta da Roberta Ferrara che stavolta si è affidata alla cura del belga Brandon Lagaert, un passato come performer multidisciplinare nella celebre compagnia internazionale dei Peeping Tom. In questo caso Lagaert ha immaginato un futuro distopico neanche tanto lontano dove potrebbe portarci un giorno l’uso esasperato di certa tecnologia. Sulla scena, al centro della quale sta un ingombrante macchinario, agisce un gruppo di performer in tuta bianca e visori simili a quelli di Apple. Si assiste alla ribellione di una donna che rigetta questo mondo orwelliano e togliendosi la maschera (ri)scopre la realtà, quella vera. Non c’è danza ma ci sono i presupposti per qualcosa d’altro. Potrebbe ad esempio, essere l’incipit di un nuovo serial movie di Netflix.
Infine ecco la compagnia Igor e Moreno di Igor Urzelai e Moreno Solinas, fondata a Londra nel 2012 (ma i due si conoscono e lavorano assieme da anni prima) che riserva sempre qualche sorpresa e di certo non va collocata dentro il mainstream nazionale in quanto i loro lavori sfuggono a molte definizioni. I due coreografi infatti spesso sperimentano cuciture e soluzioni spettacolari originali reinventando il rapporto con lo spazio e il corpo. Stavolta hanno ripreso una loro precedente coreografia per un solo, “Beat”, espandendo il modulo in “Beat forward”e cucendolo addosso al gruppo di cinque bravi danzatori (Francesco Saverio Cavaliere, Siro Guglielmi, Fabio Novembrini, Silvia Sisto e Roberta Racis). Tra i danzatori di “Beat Forward” spicca l’estro e la costante energia di Roberta Racis, una delle migliori danzatrici d’Italia. La sua presenza segna in modo originale ogni coreografia a cui prende parte (vedi ad esempio “Coefore rock and roll” di Enzo Cosimi). “Beat Forward” si muove sul beat pulsante di una musica techno minimale che punta tutto su ritmo ed energia. Un loop ipnotico che spiazza di continuo chi osserva ed è stimolato a prendere parte al sabba.
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