Teatro

Capitale e Carnevale al VIE Festival di ERT

12 Ottobre 2022

Due spettacoli, due nuove produzioni di ERT  che debuttano a VIE festival di quest’anno, con rappresentazioni in corso fino a domenica 17 ottobre, assieme ad altri lavori in prima assoluta.

Raccontiamo Il Capitale di Kepler-452 e Karnival di Michela Lucenti-Balletto Civile, due lavori di matrice diversa che hanno però ascendenti comuni sulla contemporaneità, che giocando sul significato sociale del Carnevale, sono entrambi drammatica celebrazione della vita, di una possibile riconquista del tempo che la compone.

Karnival, drammaturgia per danza, immagini, musica, canto e parole, questo lo fa attraverso i corpi di sette attori-danzatori in scena con la regista, Michela Lucenti. Tutti assorbiti dentro un ambiente di suoni e di immagini, suoni dal vivo che si percuotono in scena e sulla platea, da un angolo rosso del proscenio attraverso una batteria accompagnata da sonorità elettroniche.

Il Capitale procede piuttosto attraverso la parola incarnata da tre operai della Gkn, l’azienda metalmeccanica fiorentina nota alle cronache, che i due autori Enrico Baraldi e Nicola Borghesi hanno vissuto assieme ai suoi lavoratori occupanti nell’autunno 2021 dopo il licenziamento. Da quell’esperienza comunitaria è nato Il Capitale. Tre di quegli operai sono oggi attori in scena: Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesca Iorio.

(foto di Luca del Pia)

Così, in piena assonanza, Carnevale e Capitale nello stesso giorno all’Arena del Sole di Bologna, ricondotti a teatro in questo tempo di presente continuo, di rarefazione identitaria, digitalizzazione dei cervelli e di oblio generale su un testo fondante del pensiero economico-filosofico moderno, Il Capitale.

Ecco introdotto l’accostamento di questi due lavori, diversi per loro natura drammaturgica e per estrazione attoriale, entrambi però diretti a mettere lo spettatore in una crisi – pur animata a tratti dal comico sempre presente a teatro – una temporanea ma intensa “crisi delle incertezze” che si fanno (in Karnival) corpo animato che prima trema poi celebra e burla, canto dal vivo, arte visiva, dispiegando un carnevale psicotropo-noir, a stimolare l’incertezza su quale mascheramento ancora resti ad un corpo solo e atomizzato. In un tripudio di ombre lucenti  serpeggia il sospetto che forse è tutto inutile, tutto è finale, perché tutto in fondo indifferente, indistinto. Un hotel omonimo (Karnival), ospita i suoi personaggi stralunati e fuori  dal tempo, che cantano, ostentano dialoghi disarticolati e poi cadono mentre il tempo danza a ritmi sincopati nei corpi di satiri e inservienti di scena (formidabile la plasticità comica dell’addetta alle pulizie). Il lavoro si snoda sui quattro momenti del rito carnevalesco, dalla paura alla tragedia del finale, dove il mercoledì delle ceneri disattende le più incerte domande davanti al suicidio di una luminosa guerriera.

(foto di copertina e sopra di Guido Mencari)

Il Capitale cerca accordi ormai anacronistici tra il testo monumentale di Marx e l’attualità operaia; fin dalle prime battute mette in crisi con la più classica delle domande rivolte al pubblico: Come state? Come si sta ora? si domandano poi gli operai della Gkn licenziati in tronco via mail assieme ad altri 400 lavoratori nel luglio 2021. Come sto ora che ho messo in scena il mio Capitale? si chiede lo stesso autore in scena. Implicitamente, stiamo tutti meglio una volta sospeso ciascuno il proprio Capitale, le sue leggi-gabbia, le sue merci; se torniamo – anche solo il tempo di uno spettacolo – alla comunità, all’unione, all’utopia di un tempo. E’ questo che mette in crisi l’incertezza di essere ancora umani. Il racconto, accorato, vivido, viscerale, di vite operaie unite da una lotta quotidiana contro un astratto potere economico, assieme a due attori, senza speranza, ma in ultimo in gioiosa comunione.

(foto di Luca del Pia)

E poi scopriamo che non solo nessun operaio legge oggi un libro di filosofia economica di oltre 1500 pagine, ma che quello stesso capitale, il plusvalore e i suoi effetti produttivi e distruttivi, una volta si sia ricreata una comunità autentica, effettiva ed affettiva, materialmente semplice nella pancia grassa dell’azienda; rinato l’umano sensuale ed emotivo, liberato lo spirito, tutto il capitale di dolore svapora, tanto che uno degli operai in scena grida a un certo punto “Non voglio più lavorare!”. Sta meglio così, pur restando a vivere dentro l’azienda. L’altra incertezza, più prosaica, è quella da parte degli autori in scena, di non riuscire a compiere (né a produrre indirettamente) il minimo cambiamento sociale e di consumi, di stare muovendo a loro volta un prodotto, uno spettacolo che vorrà vendersi, svilupparsi, per consentire a nuove merci di essere consumate. Si potrebbe insinuare  una “malafede intellettuale”, ma non è questo il caso, perché il nostro tempo vede proletari anche gli artisti, gli intellettuali, quasi tutti poveri se dovessero fare i conti col solo lavoro artistico -culturale. Altrettanto dura la conversione per gli stessi operai metalmeccanici, per loro stessa ammissione incapaci di un cambiamento culturale radicale rispetto ai consumi e ai pregiudizi sociali. Tutti allora torneremo alle merci domani, e tutti ritorneremo a un nuovo spettacolo di ispirazione marxista che le discuta queste merci, per qualche tempo le sospenda a favore dell’uomo, nei corsi e ricorsi della storia, ma anche del teatro stesso.

Questo accade mentre alcuni pensatori di formazione vetero-marxista tornano non troppo provocatoriamente a parlare di “proletariato intellettuale”. Per non dire proletariato trasversale, se intendessimo con questa parola riesumata i tanti che ormai possiedono solo poco più del tesoro dei figli. Figli che alla fine del lavoro di Kepler invadono la scena, in una commozione sfrenata che si scioglie in un lunghissimo applauso.

Il Karnival giunge poi al suo martedì grasso a cui segue liturgicamente la Quaresima: fine della festa, ma intanto questi due lavori hanno saputo – per versi diversi, entrambi esibendo anche i propri limiti – rimettere il corpo, la persona dentro questo tempo incerto che è la vita, nell’orbita del lavoro che non esaurisce l’esistenza, né assicura più la sussistenza. Questo è tanto, nella durata effimera di uno spettacolo; un corpo che va cercando identità, che non può far sconti alla produzione di merci così come (in Karnival) all’ordine costituito, a una società informe e frammentata; all’assenza di una comunità viva, al pensiero unico che rassicura ma sottrae, all’illusoria fuga dalla complessità dei secoli, remota e onnipresente; i secoli che precedono anche uno smarrimento politico, a più livelli.

I corpi uniti al recupero del proprio tempo, per un amore inteso come contrasto politico alla rassegnazione; il recupero delle comunità. Questi gl’inni che nel tragico affanno dei due lavori si levano fuori dal palco e ci colpiscono.

 

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