Teatro
Cantando sotto il sole di Pirandello
Ci staremo abituando troppo bene?
Che il teatro italiano fosse vivo e vegeto, lo sostengo da tempo, vedendo quanti fanno teatro e come. Alla faccia degli apocalittici (il teatro è morto, la critica è morta, il pubblico è morto), degli scontenti eterni, dei nostalgici a tutti ci costi (ah quanto era bello il teatro di una volta!), dei benaltristi (dovremmo occuparci di ben altro!) questo inizio stagione mi sta addirittura galvanizzando.
Merito della riforma? Temo di no: la miseria ci circonda, il precariato incombe, le gestioni sono ancora troppo spesso discutibili, ancora troppi aspetti sono da risolvere. Ma quel che vedo in scena mi piace: da Nord a Sud è un fiorire di aperture di stagione interessantissime.
Di alcune abbiamo già dato conto (Genova, Roma) e si tratta ora di raccontare – per quel che abbiamo visto – quanto accade a Napoli: in due giorni abbiamo avuto la possibilità di assistere a altrettanti spettacoli, diversissimi per approccio e finalità, ma entrambi di squisita fattura e altissima resa scenica. Stiamo parlando del Liolà, diretto da Arturo Cirillo, che ha aperto la stagione del Teatro Stabile al San Ferdinando; e di Bordello di mare con città, scritto da Enzo Moscato con la regia di Carlo Cerciello, prodotto dalla Compagnia di Luca de Filippo e visto al Bellini (di cui vi dirò).
Partiamo dunque dal testo di Luigi Pirandello, quel Liolà dalle molteplici versioni – in siciliano, in italiano, addirittura in napoletano – che Cirillo toglie dalla polvere e dal folklore, complice un bel cast, e lo rende una lietissima sorpresa.
Agendo drammaturgicamente sulle diverse edizioni, a partire da quella originale del 1916, ma interpolata da passi delle successive (del 17 e del 28), e soprattutto spingendo verso una sottrazione che è allusione e stilizzazione, grazie a Cirillo l’opera di Pirandello assume i toni di una incantevole parabola umana.
La scena (nella bella ideazione e realizzazione di Dario Gessati) è un’illusione agreste e solare: quasi un omaggio a Nelken della Baush, sul fondo del palco spuntano fiori di campo. In fronte, sedute allineate, sono le donne, alle prese con quelle che nell’originale sono mandorle da schiacciare. Sembra più La casa di Bernarda Alba che non un casolare siciliano. Sono forti, potenti, si muovono sincronicamente. La loro è una danza, rarefatta e ritmata: ma nei movimenti si insinuano racconti, pettegolezzi, battute, canti.
Lentamente si chiarisce la vicenda: il vecchio zio incapace di procreare, la moglie afflitta dal pensiero, la roba da lasciare in eredità. Potere e soldi, maschile e femminile, giovani e vecchi, possidenti e proletari: ecco, i temi che Arturo Cirillo fa esplodere dentro e sotto l’eterna vicenda di corna pirandelliane. Da un lato la gestione del corpo femminile, il possesso e la procreazione. Dall’altro la sterilità dell’uomo vecchio che si confronta con la naturale vitalità erotica del giovane protagonista Liolà. Chi vince e chi perde? chi è il truffato e chi il truffatore?
Sono tanti, dunque, gli aspetti che il lavoro riesce ad attraversare, tenendoli però in una tensione di non detto e di aguzza violenza. La diatriba è spesso violenta, greve, a tratti meschina e bigotta, cupamente giocata su mezze frasi e ricatti nemmeno troppo velati. Nella quiete della campagna la natura umana si svela anche nei suoi lati più lividi.
Ma questa cupezza, però, è costantemente contrastata dall’altra “invenzione” scenica di questa edizione: ovvero il canto, la musica. Questo Liolà è quasi una “opera contadina”, un piccolo vivace musical, una commedia alla “Garinei e Giovannini”, dove le canzoni sono a un passo da Puccini o da Mascagni, da un western di Tarantino o dalla sceneggiata. Le musiche e la drammaturgia vocale, curate da Paolo Coletta, fanno di questo Liolà, ottimamente interpretato da Massimilano Gallo, anche un’evocazione possibile di un pasoliniano Domenico Modugno: arriva di lontano cantando, a pieni polmoni, e spesso ricorre alla canzone per spiegarsi, per pensare, per sognare.
Le donne – efficacissimo il trio composto da Viviana Cangiano, Valentina Curatoli, Giuseppina Cervizzi – sono dunque il coro, forse un coro tragico greco, che contrappunta e sottolinea la vicenda.
Se lo stesso Arturo Cirillo, da raffinato interprete qual è, si ritaglia molto bene l’aspro, stizzito e tagliente, ruolo del vecchio zio (forse inutilmente sottolinea troppo il tremore del vecchio, quando qui, in gioco, non è tanto e solo l’età, quanto la retorica della virilità dei personaggi), ecco che Milvia Marigliano si impone nel ruolo della cugina, Zia Croce, con tutta la sua verve. Giovanna Di Rauso, invece, dà alla figura di Tuzza – che mette fine tragicamente alla storia – sguardi foschi di una aliena precipitata chissà dove, che si contrasta con l’eterea figura della Mita, giovane moglie di zio Simone, cui dà candida anima Giorgia Coco.
Con loro, la sempre fantastica Sabrina Scuccimarra e la bravissima Antonella Romano, ovvero la Moscardina e Gesa, solerti “comari” di fine ironia e spiccia pratica. A chiudere il nutrito gruppo di lavoro, tre giovani allievi della scuola del Teatro Stabile di Napoli, Emanuele D’Errico, Antonia Cerullo e Francesco Roccasecca, che – straniati e stranianti – interpretano i tre piccoli figli di Liolà.
Ecco, dunque, la felice decisione regista di Cirillo colpisce nel segno: è un passo deciso nel rendere Pirandello senza pirandellismi, un gioco teatrale, di avvolgente originalità, che si svela curiosissimo ibrido, fatto con effervescente eleganza (i costumi di Gianluca Falaschi danno un notevole contributo), e inattesa allegria. Si può ridere di Liolà e di Zio Simone? Pare proprio di sì, ma sul fondo resta quell’amarezza nevrotica cara all’Autore premio Nobel. Il ricordo della campagna agrigentina, che voleva evocare, non è certo consolatorio: sotto l’ulivo saraceno, oggi come allora, brucia il dolore, la sofferenza, la passione.
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