Teatro

Brancaccino e Carrozzerie Not: spazi di creatività a Roma

19 Novembre 2016

Nella storia teatrale di Roma, la logistica e l’urbanistica hanno un ruolo di rilievo. Si potrebbe scrivere una storia del teatro capitolino partendo dai luoghi – e in buona parte Nicola Fano, nel suo libro Andar per teatri l’ha fatto.

Basti dire, per farla breve, che una delle pagine recenti, di cui ancora parliamo, è quella delle “cantine”, ossia di quegli spazi ricavati – con coraggio e un po’ di follia – da ambienti non abituali: garage soprattuto, o vecchi magazzini riadattati. Nelle cantine si giocò la vita l’Avanguardia degli anni Settanta: quei giovani maestri di allora che si contrapponevano ai teatri “ufficiali”. Erano alternativi ai teatroni del centro città, quelli delle grandi arterie: l’Eliseo di via Nazionale, il Teatro Argentina nell’omonimo slargo, il Quirino, il Sistina e poi il Valle (ah! Il Valle: che brutta fine ha fatto il nostro amore…).

Molte delle cantine sono scomparse, ma ci sono ancora tracce: impossibile citarle tutte, ma possiamo ricordare il teatro La Comunità di Giancarlo Sepe (minacciato di sfratto), l’Orologio, il Tordinona, forse il Vascello – certo non per struttura ma per la “gerenza” legata, in continuità, a Giancarlo Nanni e Manuela Kusterman.

Negli anni Novanta, poi a fronte dell’ennesima crisi delle realtà ufficiali, esplosero i centri sociali, anche questi tutti o quasi sgomberati: si andava ad esempio, per citarne solo alcuni, al Rialto, all’Angelo Mai, al Forte Prenestino a vedere il nuovo teatro. E c’erano (e ci sono ancora) anche l’Argot di Panici, il Furio Camillo di Sambati, poi il Teatro degli Artisti del compianto Simone Carella. C’erano, consentitemelo, gli spazi che “inventammo”, con Alessandro Berdini e l’ATCL, per la rassegna “Senza fissa dimora” – con i Tetes de Bois che fecero un concerto nella vasca degli orsi allo Zoo, o con spettacoli in un barcone sul Tevere e in altri luoghi alternativi. E c’era soprattutto il Valle (ah! Il Valle) gestito dall’Eti in una prospettiva di grande apertura internazionale e nazionale.

E subito dopo arrivò il Teatro India, l’invenzione di Mario Martone e fu una festa: oggi quello spazio che era meraviglioso stenta purtroppo  a ricollocarsi nel panorama cittadino e nazionale.

E adesso?

In questa storia che provo a ripercorrere in modo grossolano e certo incompleto, notiamo che, tramontato il Valle (ah! Il Valle) che è una ferita aperta in città, si affacciano alla ribalta nuovi spazi. A partire dai cosiddetti Teatri di cintura (Quarticciolo, Tor Bella Monaca, teatro del Lido di Ostia) si moltiplicano le realtà piccole o piccolissime, e mi piace segnalarne, per il momento, almeno due: il Brancaccino e Carrozzerie Not.

Del Brancaccino, costola del ben più grande e musicale Brancaccio, possiamo dire che è un teatro che sta acquisendo, nell’arco di poche stagioni, una sua identità. Spazio attento alla drammaturgia contemporanea e alle dinamiche attorali, il Brancaccino ha ospitato L’eternità dolcissima di Renato Cane, debutto registico di un attore di razza come Vinicio Marchioni su testo di Valentina Diana. Alla prima, accolta calorosamente dal pubblico, lo spettacolo necessitava, secondo me, ancora di una qualche messa a punto, ma già svelava una cifra curiosa, sospesa, di surreale e delicata comicità. La piccola “tragedia di un uomo ridicolo” chiamato a fare i conti con una insopportabile verità: che fareste, voi, se vi dicessero che avete tre mesi di vita?

un ritratto di Marco Vergani
un ritratto di Marco Vergani

Questo Renato Cane, personaggio minimale del tran tran quotidiano, si avventura in un’esistenza di nuove possibilità: prova a organizzarsi un dignitoso funerale, cerca consolazione nella poesia inattesa in disegni infantili, spera di conquistare uno straccio di eternità attraverso fumose pratiche dovute a incontri casuali. Fa i conti con la moglie e il figlio, scoprendo la verità amara di rapporti sentimentali non così veri.

Poi, ovviamente, la diagnosi sarà farlocca e l’antieroe sarà costretto a tornare – forse – al suo vivere banale. Drammaturgicamente un po’ oscillante,  lo spettacolo apre però spiragli intelligenti sul consumismo della morte (i funerali a prezzi scontati pubblicizzati ogni dove), sulle dinamiche di esistenze sperse, sul desiderio umano, umanissimo, di lasciare qualche traccia. E si avvale di una bella prova del protagonista, Marco Vergani, che gioca toni di tenerezza e candore che avrebbero fatto felice un grande come Renato Rascel.

L’altro spazio di cui mi piace dire è Carrozzerie Not, che sta diventando davvero un punto di riferimento per la nuova scena romana e non solo. Lo spazio vicino a Porta Portese, infatti, ha una programmazione vivacissima, sempre di qualità.

Vi ho visto due tra le proposte più originali e divertenti di questo inizio stagione: la lezione-spettacolo che Massimiliano Civica fa sul teatro di Eduardo De Filippo, dal titolo Parole imbrugliate, e il Trattato di economia di Castello/Cosentino.

Massimiliano Civica
Massimiliano Civica

Quello di Civica è un racconto, una contro-storia del teatro, ricca di aneddoti e curiosità, che parte del magistero di De Filippo per allargarsi, poi, a una ampia riflessione sul fare e vivere il teatro. È una lezione, ma dai tempi e dai risvolti intelligentemente teatrali, che apre spaccati di grande intensità sul senso e sul modo della pratica scenica di quella “tradizione del nuovo” che Civica chiama in causa. Echeggiando un bel libro di Emilio Pozzi, Parole ’mbrugliate, appunto, Civica, sornione e arguto come sempre, diverte e con perizia lascia tracce di un teatro antico e presentissimo. Trascinante affabulatore, sapiente dispensatore di saggezza scenica, il regista si fa interprete di se stesso, trovando nella “forma-lezione” un territorio adatto per unire miti e leggende a concrete testimonianze storiche: i documenti del passato servono per aprire spiragli sul presente e la vita di De Filippo – i rapporti con il fratello, la gestione della compagnia, le creazioni – si muta in altrettanti paradigmi di un modo di fare teatro, quel “teatro all’antica italiana” dove i capocomici avevano la responsabilità di mandare avanti la baracca, e di andare in scena, sera dopo sera, nonostante tutto.

Andrea Cosentino e Roberto Castello, foto di Ilaria Scarpa
Andrea Cosentino e Roberto Castello, foto di Ilaria Scarpa

L’altro lavoro, il Trattato di economia (anche nella foto di apertura di Ilaria Scarpa) vede la creazione di una coppia comica senza precedenti: il coreografo e danzatore Roberto Castello si intreccia con la surreale cifra creativa dell’autore-attore Andrea Cosentino. L’esito dell’incontro è una inattesa deflagrazione dei meccanismi scenici cui dà compimento teorico, in un finale davvero ironicamente situazionista, l’apparizione video del critico Attilio Scarpellini, che “firma” una divertente e divertita recensione entusiastica ancorché preventiva. Il Trattato di economia è una feroce requisitoria contro i meccanismi del Capitale, è un affronto alle leggi del mercato, è una parodistica conferenza sul rigore delle macro e micro dinamiche economiche, un attacco al cuore dei feticci del consumismo.

foto di Ilaria Scarpa
foto di Ilaria Scarpa

Partendo dall’analisi comparata di due oggetti di plastica dello stesso peso, stessa fattura, ma dal prezzo diversissimo – un pene e una paperella – Cosentino e Castello si arrampicano su teorie e ipotesi, su dimostrazioni e digressioni di paradossale ma incontrovertibile logicità. Semmai, il Trattato si piega un po’ su se stesso quando la critica si fa troppo autoreferenziale, ossia tutta rivolta ai meccanismi del teatro stesso, parlando a un pubblico scelto: ma lo studio dei “destinatari” – ovvero dei consumatori e delle fasce di mercato – è esilarante. Come pure funziona benissimo la parodia, per stili e modalità, delle creazioni dei “grandi maestri della danza” che Castello mette alla berlina. Dietro l’apparente e goliardica intemperanza dei due, allora, c’è la sapienza tagliente di chi sopporta sulla propria pelle l’impossibilità di una vita culturale (e teatrale) normale. “Di cultura non si mangia”, dicono i soloni del nuovo consociativismo massone, pronti a tutto pur di tagliare l’investimento pubblico nello spettacolo dal vivo e nell’arte. Cosentino e Castello dimostrano, drammaticamente, quanto la fosca profezia sostenuta da tanta parte politica sia vicina a realizzarsi.

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