Teatro

Binasco e Wesker per festeggiare il teatro di Genova

19 Ottobre 2016

Ci sono eventi che non nascono, programmaticamente, come tali, ma lo diventano alla prova dei fatti. È andata così, ieri sera, al teatro della Corte di Genova, dove c’era grande attesa per La Cucina, formidabile testo di Arnold Wesker (scritto nel 1957) messo in scena da Valerio Binasco per il Teatro Stabile del capoluogo ligure. Ebbene, l’attesa non è andata delusa, e anzi ha trasformato una prova “coraggiosa”, ma anche rischiosissima, in un bell’evento.

Il teatro Stabile di Genova, diretto da Angelo Pastore, compie 65 anni e ha dedicato una settimana ai (propri e meritati) festeggiamenti. Ma per dare un segno tangibile di un nuovo, imminente futuro ha voluto aprire la stagione con due allestimenti affidati non solo a due registi “giovani” come Valerio Binasco e Filippo Dini (stasera al debutto con Il Borghese gentiluomo al Duse, ne parlerò) ma anche dando grande spazio e rilevanza agli allievi della storica scuola di teatro. Avrebbero potuto giocare sul sicuro, snocciolando i grandi nomi di questo teatro: da Eros Pagni a Elisabetta Pozzi passando per Marco Sciaccaluga o Andrea Liberovici, e invece hanno deciso di dare un segnale altro, e di grande valore: che uno stabile inauguri il cartellone con un testo difficile come La Cucina, con 24 attori giovani e giovanissimi (alcuni neodiplomati), mi sembra da sottolineare.

Di fatto, a guardarsi intorno, ci sono motivi per ben sperare: Antonio Latella alla Biennale Teatro (e artefice della bellissima, a detta di tutto, maratona Santa Estasi con gli allievi dell’Ert); Claudio Longhi appena nominato proprio a Modena; Emma Dante a Palermo con Alajmo, Massimo Mancini a Cagliari, e ora Binasco e Dini sui due palcoscenici dello stabile genovese sono manifestazioni tangibili che qualcosa si stia muovendo anche nel polveroso e tendenzialmente gerontofilo mondo teatrale italiano.

Allora La Cucina è stato un evento, ma non solo e non tanto per quel che ho appena detto, quanto per l’esito scenico.

La Cucina, regia di Valerio Binasco
La Cucina, regia di Valerio Binasco, foto Caroli

L’opera di Wesker, poco frequentata per la sua complessa struttura (prevede oltre trenta attori in scena, simultaneità di situazioni e dialoghi) viene presa e fatta splendere da Binasco con un approccio sapientemente attuale. Se nell’originale, lo scontro di classe tra cuochi, cameriere, lavapiatti e il proprietario del locale era quasi manicheo, qua assume connotati più sfumati, più umani, direi più complessi.

La scena (di Guido Fiorato) ariosa e cupa al tempo stesso, è una cucina divisa in due piani: vi si accede scendendo delle scale, dunque possiamo suppore che sia sotto il livello stradale, come testimoniano due ampie finestre in alto.

Al primo piano un ambiente chiuso a uso spogliatoio e un ballatoio. Sotto il grande spazio della cucina: in fondo il forno a vapore e di fronte le postazioni dove si affolla il personale. È una gerarchia precisa, quella della cucina. È un gioco di ruolo, di prestazioni, di presenza, ritmo e velocità. Da sinistra si va alla sala, che supponiamo grande: si parla di 1500-2000 posti a sedere. La cucina è un microcosmo: sociale, culturale, professionale, generazionale. È una babele di lingue, con vari dialetti italiani che si mescolano a accenti nordeuropei, slavi o arabi, e di diverse (in)culture. È terreno di scontro e sopraffazione. Di là c’è il padrone, che si affaccia di tanto in tanto, magari accompagnato da una bella fanciulla tutta gambe. Di qua la forza lavoro. Sono tanti, ciascuno con un bagaglio in cui si porta dietro storia, frustrazioni e sogni: magari sogni banali, semplicemente dei soldi, una casa, da raccontare a un microfono in un improvvisato concerto. Oppure da tener a lungo celati per poi gridarli in faccia a tutti, perché riguardano l’umana solidarietà, la fratellanza, o il solito, eterno, irrisolto bisogno d’amore.

In primo piano, Elisabetta Mazzullo e Aldo Ottobrino, foto Caroli
In primo piano, Elisabetta Mazzullo e Aldo Ottobrino, foto Caroli

Ecco, mi pare proprio questa sia la chiave di aggiornamento del testo: al di là delle barriere linguistiche incarnate nel meltin pot incandescente, racchiuso nella cucina; al di là degli infortuni sul lavoro (ustioni o gravidanze indesiderata risolte con molto cinismo); al di là degli scazzottamenti che coinvolgono il gruppo, ben oltre le dinamiche reddituali e di potere, sembra emergere prepotente – nella lettura di Binasco – la voglia di trovare un legame, un ponte, un possibile incontro tra esseri umani.

Così, il gesto di rabbiosa rivolta finale del tedesco Peter, che tutto sfascia e tutto blocca, fino al tentativo di autoannientamento, non è più l’attesa rivoluzione, magari sessantottina, ma esplode e anzi si sospende – in un momento irreale di grande bellezza – in un pianto disperato tra le braccia del “nemico” Nicholas. Lo spettacolo, infatti, si chiude con questa scena in levare, sospesa appunto, con le luci di sala che si accendono lentamente, a sipario aperto: è un attimo di emozione trattenuta, di sottile e empatica comunicazione tra palcoscenico e platea, tra attori e spettatori, che quasi storditi si portano lentamente in proscenio per il grande applauso. È una apertura verso una riflessione da portare fuori, in strada e in piazza e ciascun spettatore nelle proprie case o nei propri cuori.

Prima di quel momento ci sono i ritmi frenetici delle ordinazioni e dei piatti da preparare, le lamentazioni, i discorsi a vuoti, gli insulti, il menefreghismo e l’egoismo di tutti e ciascuno. Poi c’è il silenzio della sconfitta privata e collettiva di chi si è fatto meccanismo nella macchina schiacciasassi della produttività, del capitale, del lavoro necessario e ricattatorio. Alienati, avrebbe detto una volta il compagno Marx: alienati dalla miseria, dalla fama, dalla legge del più forte, dalla necessità di mangiare e guadagnarsi uno straccio di salario.

Sono bravi, dicevamo, tutti gli interpreti, e li voglio citare perché da ciascuno arriva un contributo fondamentale alla coralità di questa impresa: a partire da Aldo Ottobrino, che è un Peter respingente quanto basta, a Massimo Cagnina, Andrea Di Casa, Elena Gigliotti, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli, Francesca Agostini, Emmanuele Aita, Gennaro Apicella, Lucio De Francesco, Giulio Della Monica, Alexander Perotto, Aleph Viola, con la partecipazione di Franco Ravera (che è un barbone filosofo di rara intensità) e ancora Antonio Bannò, Giuseppe De Domenico, Noemi Esposito, Giordana Faggiano, Isabella Giacobbe, Martina Limonta, Giulio Mezza, Duilio Paciello, Bruno Ricci, Kabir Tavani.

Bravi, davvero: un collettivo ricco di solisti. Belli i costumi di Sandra Cardini, eccentrici e “uguali”, omologati e originali nel loro essere di una contemporaneità senza tempo, suggestive le musiche di Arturo Annecchino e come sempre impeccabili le luci di Pasquale Mari. Al teatro della Corte fino al 6 novembre: se potete, entrate in questa cucina…

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