Teatro
Biennale, un “Loco” tra i tabù della contemporaneità
Ma che mondo è quello in cui viviamo? Circondati e sul punto di essere annientati da un universo tecnologico che muove i fili da nuovo Big Brother in grado di condizionare la vita, incanalandola verso un futuro senza sogni e bellezza? Nella prima parte della veneziana Biennale Teatro diretta da Ricci/Forte sono stati presentati due spettacoli che aprono più di un interrogativo sulla nostra contemporaneità. In questi allestimenti emerge infatti, per quanto riguarda la parte occidentale del Pianeta Terra, ricca e tecnologica, un mal di vivere in cui è tornata prepotente, e senza vie di scampo, la solitudine. Una, cento solitudini, nascoste dietro false sicurezze, preda di tabù e malattie mentali; egoismo come autodifesa dagli altri che incutono paura. Uomini e donne fagocitati in un presente dove l’amore è ridotto a spazi minimi e confusi fino alla perdita di senso.
In “Brief Interviews with Hideeous Men”. Yana Ross, nata a Mosca e vissuta in Lettonia, prima regista donna ad aver lavorato alla Volksbuhne di Berlino (attualmente è alla Schauspielhaus di Zurigo e dal 2023 sarà al Berliner Ensemble) il tema della solitudine lo ha evocato persino nel sottotitolo della sua opera tratta dalle “Brevi interviste con uomini schifosi” dell’americano David Foster Wallace.
I newyorchesi Caden Manson, Jemma Nelson e il Big Art Group in “Broke House” illuminano un universo disincantato, apocalitticamente avvulso da app e social media, dove i protagonisti giocano solo per se stessi la sfida per la vita. Niente di nuovo sotto il cielo, eppure queste due opere, pure se gli attori recitano in inglese o in tedesco, parlano il linguaggio del nostro tempo, specchio quasi esatto di quanto accade già nella nostra quota di cielo. Una quotidianeità sempre più egoista e senza empatia che sta costruendo, day by day dei nuovi mostri.
Nelle “Brevi Interviste” di D.F Wallace rilette in scena in modo minimale da Ross -che avrebbe ben voluto intervistare lo scrittore suicidatosi nel 2008 sul tema dell’empatia- quei mostri, svelati dal Big Group, circolano già da tempo dentro la società americana e sono anche una diretta conseguenza di una profonda crisi di valori. In quelle righe lo scrittore ha messo nudo infatti, tutto il maschilismo stelle e strisce. Una fotografia feroce e definitiva dell’uomo bianco che riguarda anche la nostra parte di civiltà. La galleria di racconti costruita da DFW è popolata da personaggi raccontati in modo obliquo. Di loro si intuiscono solo i contorni psicologici da pochi dettagli: una frase, un gesto, un’azione… Spesso sono dialoghi senza profondità in cui è impossibile leggere fino in fondo le biografie. Monologhi e conversazioni scarne, specchio di esistenze solitarie con evidente incapacità a parlare e comunicare. Discorsi noiosi e ripetitivi, parole lasciate in sospeso. Il vuoto. A chi chiede non interessa la risposta. Il sesso e tutto quanto gira attorno è così frutto di un solitario e onanistico modo di vivere quotidiano. Risultato di stereotipi che danno sicurezza al macho. Non c’è piacere nel sesso, ma solo ripetizione di atti meccanici che confermi il potere di chi esige e riceve. Garanzie di prestazione. Il maschio vuole la donna come oggetto, puro e semplice oggetto. Il possesso equivale al riconoscimento del potere. Così l’amore è un accessorio, sovrastruttura utile a raggiungere lo scopo: quello di affermare un dominio.
In una efficace scenografia riproducente una casa middle class americana, con piscina, Ross costruisce una sorta di catalogo da band dessinèe mettendo in pista senza soluzione di continuità le “22 storie di solitudine” con i bravi attori della Schauspielhaus. Ogni casella è un tassello di una infinita serie di vite perdute. Uomini e donne soli. Cacciatori di prede, incapaci d’amare, vestiti di colori pastello come in una sfilata pop. Abbigliati da cow boys con stivali appuntiti e Stetson sulla testa. Simili ai tanti frequentatori di bar americani che in sala hanno il toro da cavalcare e la birra, da bere a fiumi. Musiche di orchestrine in cerca di Nashville, dal suono un po’ teutonico con qualche passeggera sferzata da “Bill Kid”. La provocazione (se ancora ha senso) viene “sparata” subito, all’inizio, quando gli spettatori entrando in sala si imbattono in una coppia di attori porno professionisti, intenta a fare sesso in tutte le posizioni. Il resto è sfarinamento delle “interviste”. Una donna confeziona dentro un barattolo un mix di carne e pomodoro e ne offre l’assaggio . Una porno attrice fa lo strip davanti a una coppia che assiste impassibile. Un vecchio su sedie a rotelle si lamenta della perduta gioventù… etc.. Lo spettacolo è così un lungo piano sequenza, con tutte le storie ridotte a icona ma in realtà raramente riesce a decollare, nonostante i bravi attori e la bella scenografia. C’è un senso generale di sfinimento, una drammatica incapacità ad andare oltre e colpire al cuore. Solo una desolante e dolente giostra a ripetere cercando una via d’uscita che non si trova.
Scenografia essenziale in “Broke House” di Big Art Group con telecamere dappertutto a dare il ritmo di un Real Time movie. La televisione e il suo doppio. Così come è cresciuta dentro i vari reality show è ormai un enorme e lineare blog che tutto divora. L’occhio irrispettoso, come da contratto, si impadronisce dei suoi abitanti, ne mette a nudo , contemporaneamente le vite producendo drammi a catena. La casa, altro non è che uno sharing flat, un appartamento condiviso dove ciascuno dentro la propria camera nasconde gelosamente propri vizi e segreti. L’occhio della tivù impietosamente registra e viola la privacy, rivelando anche l’inconfessabile. Dagli amori fasulli di una chat -in realtà una escroquerie in piena regola- alle finte amicizie di chi ruba idee da sfruttare e fare soldi, ovviamente in Rete. Il meccanismo messo in piedi da Caden Mason e gruppo è implacabile e mostra sulla scena una baraonda circense: dagli schermi che si sommano sul palcoscenico, con primi o primissimi piani degli inquilini, alla denuncia impietosa di rapporti che si lacerano fino alla perdita della casa segnata da una ingiunzione di sfratto, ma già prontamente acquistata proprio da chi ha usato le armi dell’inganno mediatico. E’ un mondo sempre più alienato dalle immagini di social che si rincorrono dentro le esistenze, trasformando continuamente il reale in un’avventura virtuale.
E poi c’erano un francese, un italiano, una giapponese… potrebbe iniziare così il resoconto di “Una foresta” del quasi esordiente regista Olmo Missaglia (vincitore Biennale College 2021) che dichiara nelle sue note di essere interessato “all’interazione tra immaginario personale e politico”. Si dichiara, lui nato nei Novanta, di essere figlio di una generazione che sta in mezzo al guado. A cavallo tra epoche diverse. E tale difficoltà a vivere e a scegliere il proprio cammino si coglie proprio in questo allestimento che vorrebbe citare “Rosencrantz e Guidelstern” dell’inglese Tom Stoppard e persino Pasolini, ma in realtà mostra qualche problema a livello drammaturgico. Troppa ansia nel volere il colpo a sorpresa può far perdere l’equilibrio e così il traballante incedere dello spettacolo che si vorrebbe affresco surreale di una generazione diventa un meccanismo che s’inceppa e gira a vuoto. Tre giovani a cui si aggiunge una quarta ragazza, ai bordi di una foresta parlano tre lingue diverse anche perchè giungono da luoghi diversi. La voglia di muoversi è evidente, ma resta appunto un desiderio. Mai un moto di ribellione o dichiarata voglia di cambiare. Solo un bel sogno dipinto come uno dei tanti spettacoli dell’epoca del teatro postmoderno in Italia. Un allestimento di uno dei gruppi degli Ottanta che mai riuscirono a varcare il guado nei Novanta.
Nella rassegna veneziana che ha dedicato una importante personale a Milo Rau con la proiezione dei suoi lungometraggi c’è posto anche per una straordinaria performer come Aine E. Nakamura, giapponese nata negli Stati Uniti, che ha presentato in prima assoluta l’azione “Under a Unnamed Flower”. Emozionante dall’inizio alla fine, è un concentrato di sentimenti ed emozioni che la performer trasferisce en plein air nel campo Santo Stefano ad un pubblico numeroso e silente, Attraversato con eleganza lo spazio disfa un vecchio paracadut e sceglie con cura le pietre disposte in semicerchio come fossero fiori od oggetti rituali da cogliere ed accarezzare. Segni che riemergono dal passato familiare e del suo Paese distrutto nella seconda Guerra. Racconta della necessità di pace e allo stesso tempo del bisogno indispensabile di coltivare le radici e la storia. Nakamura ha una presenza magnetica nel compiere degli atti precisi che sanno di danza archeologica mentre intona con la sua voce da mezzosprano antichi canti provenienti da una piccola isola nel mar del Giappone. Stesa per terra, il corpo ha spostamenti minimi simili a quelli un danzatore butoh. Quasi ieratica nello svolgere il kimono color viola che indosserà come un abito da cerimonia. Parte di un tutto che è un canto e una richiesta di pace nel mondo.
Sarà infine, la poesia di un “Loco”, cioè un pazzo, a portare un messaggio di speranza ad un mondo che va in frantumi? “Loco” è uno spettacolo avvincente, coinvolgente, magico come solo il teatro di figura può essere, frutto della collaborazione tra la cilena Tita Iacobelli che si è occupata della regia e della drammaturgia, della russa Natasha Belova, regia, drammaturgia e ideazione della scenografia e della marionetta. Sulla scena hanno agito magistralmente la stessa Iacobelli assieme a Marta Pereira. Il “Loco” in questione viene dal racconto di Nikolaj Gogol sul tema della malattia mentale, “Le memorie di un pazzo” . Al centro le vicissitudini dell’impiegato comunale Papriscin che perde il lume della ragione dopo aver conosciuto Sophie, la bella figlia del sindaco. La passione lo spingerà ad interrogarsi sul presente e la sua condizione, mettendolo sul cammino di una delirante trasformazione. Papriscin si convince di essere un uomo di potere fino ad autoproclamarsi nuovo re di Spagna, Ferdinando VIII. Il bisogno di superare la realtà e sognare, il desiderio di sperimentare altro da sé è la molla che spinge spesso l’uomo a sognare inediti scenari di vita, abbandonando spesso, e per un attimo, il proprio presente per viaggiare sulle ali della fantasia in altri territori. Il quotidiano del travet russo e la sua progressiva follia sono messe in scena con autorevole professionalità. Citazione ad hoc: la marionetta possiede l’immagine del volto di Antonin Artaud. La sua attenta e precisa manipolazione lentamente ne confonde, agli occhi degli spettatori, i movimenti e la gestualità. Papriscin vive ed è veramente lì, presente con il suo dramma e la sua esaltazione. Il suo elucubrare spinge a uscire dalla vita di tutti i giorni per varcare il confine della realtà ordinaria. Fa sorridere per gli attimi di comicità che regala, commuove per l’impossibile amore, inquieta per la vita consegnata alla pazzia.
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