Teatro
Biennale teatro, l’altro “Amleto” è queer
Uno, dieci, cento Amleto. L’eroe shakespiriano indicato come ponte con la modernità non finisce mai di stupire e continua essere oggetto di attenzione e repechage per autori e teatranti. Enigmatico, crudele, affascinante e queer è quello messo in scena alla Biennale teatro da Boris Nikitin – drammaturgo svizzero nato a Basilea, figlio di immigranti ucraini e slovacchi con parentele francesi ed ebraiche, curatore del festival biennale “The Real Thing-Basel Documentary platform” – assieme al performer, attore, musicista e cantante Julian Meding dal piglio post punk. “Hamlet” nasce dal loro incontro. Una relazione artistica intrecciatasi sul palco in un rapporto di scambio molto forte al punto che non si sa più chi sia il soggetto che sale sul palco. E’ Amleto che parla della perdita recente del proprio padre di cui però si sono perdute le tracce e appare di continuo come fantasma, oppure è il performer stesso?
Entra sul palco in diretta da Hallowen con un mascherone di lupo, indossando la T shirt nera della pop band tedesca Die Heiterkeit. Quando si toglie la maschera si rivela un giovane dagli occhi chiari, senza sopracciglia e capelli, sguardo penetrante che punta direttamente gli spettatori. Il movimento del corpo è ondeggiante e sinuoso. Quasi con fare sospettoso. E’ lo stesso che in “Hamlet” di Shakespeare attira già nel primo atto le critiche di Gertrude e del re, lo zio Claudio.
Così lo rimprovera la madre: “Good Hamlet, cast thy nighted colour off, And let thine eye look like a friend on Denmark. Do not for ever with thy vailed lids Seek for thy noble father in the dust: Thou know’st ‘tis common; all that lives must die, Passing through nature to eternity” (Amleto, caro, togliti di dosso quel colore notturno, ed il tuo occhio riguardi da amico colui ch’è ora il re di Danimarca; non andare cercando di continuo con quelle palpebre sempre abbassate il tuo nobile padre nella polvere. È legge di natura – lo sai bene – che ciò che vive deve pur morire, dal mortale passando all’immortale). Poco dopo rincara la dose il re Claudio accusando il principe di “lutto ostinato” , un “modo di soffrire non virile”, un “animo impaziente” “un intelletto semplice e incolto” , insomma un comportamento non indicato certo ad un futuro erede al trono. E incalza: ”Perché dovremmo consumarci il cuore in tanta pervicace ostinazione ?” Il racconto di Julian non ha niente di affabulatorio, asciutte frasi in tedesco, parole pronunciate in modo aggressivo manifestano incertezza sull’identità (una declinazione del “To be or not to Be”?) giocando i tasti costantemente tra finzione e realtà in un capovolgimento continuo che rimescola parti interpretative e letterali. E’ insomma un “Hamlet” deflagrato con ampie zone di oscurità e malessere che rende però il racconto teatrale inedito e affascinante per i confini attraversati e gli stimoli lanciati con citazioni, vecchi filmati super 8 con feste di bambini, o carrellata video in un reparto di geriatria. Al lato del palcoscenico una piccola orchestra barocca, distante e quasi in penombra, accompagna e punteggia le evoluzioni del protagonista.
E’ il Der Musikalische Garten, formazione di straordinari strumentisti “coronata di premi” come la definisce Julian che, impugnata una chitarra canta con voce cupa e nervosa. Lascia il brano a metà e getta per terra lo strumento. “Non è teatro” dice Julian. “Non è un concerto” aggiunge. Non è la vita reale. Non è il primo atto. E’ tutto falso. O forse no, E’ davvero Amleto che a tratti emerge, pur dentro una confusione creativa,. Un Amleto che con Shakespeare metteva in discussione un ordine stabilito e, utilizzando il teatro come piattaforma politica, lo minava dall’interno. Ora, nel gioco del rispecchiamento probabilmente cerca la stessa via nell’allestimento originale di Niktin e Mending. Quest’ultimo poi, nella deriva finale di “Hamlet” ritrova chitarra e voce per imbastire con il gruppo barocco una musica che meriterebbe davvero un concerto, Un suono indie fatto di classicità e post punk che richiama alla memoria quello degli americani Beirut, progetto musicale di Xachary Francis Condon che ha messo insieme suoni tradizionali dell’est europeo, musica yiddish ed english pop. Un finale che aiuta a risalire la china, lasciando in controluce le oscurità intraviste.
Quasi un luogo comune quello di vedere il teatro come spazio franco che anticipa o restituisce la vita per rappresentazione. Accade spesso, è accaduto accidentalmente anche alla Biennale, dove quasi in contemporanea con la tragedia del Titan, il mini sommergibile imploso con cinque persone a bordo, a quattromila metri di profondità dell’Oceano Atlantico, nel luogo dove giace il relitto del “Titanic”, andasse in scena “En abyme” allestimento teatrale scritto da Tolja Djokovic, regia di Fabiana Jacozzilli. Testo premiato l’anno precedente nel Biennale College destinato ai drammaturg under 40 e che, casualmente narrava anche dell’impresa effettuata in solitario dal regista James Cameron (autore del film di grande successo “Titanic”, altra coincidenza) che il 26 marzo 2012 aveva raggiunto con un piccolo sommergibile, primo uomo in assoluto, il fondo della Fossa delle Marianne.
I punti di contatto finiscono qui ma, ca va sans dire, è inevitabile il rimando tra finzione e realtà. Intanto, al centro del lavoro interpretato in modo preciso dagli attori (tutti bravi e un plauso alla bambina): Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli e Aurora Occhiuzzi, è proprio l’abisso. Che, come indica anche il titolo in un gioco di rispecchiamenti vede da una parte, l’impresa di Cameron e il frammentario mondo di una bambina e di suo padre, presenza assente. Una storia fatta di abitazioni e oggetti che giaceranno dimenticati. Abisso interiore quindi che sta al centro di un continuo intersecare di piani diversi che vanno dal privato di una bambina/adulta al documentario della impresa del regista americano. Il gioco degli intrecci tra spazi bene separati anche visivamente nelle scene disegnate da Giuseppe Stellato, ingombro di monitor e vecchi schermi televisivi obsoleti è raffinato. Immersioni di batiscafi, nuotate ed emersioni a bordo piscina, ricordi dolorosi e quella cruda distanza padre-figlia che rimbalza nelle immagini e nel racconto a specchio in un gioco ad libitum. Che volente o nolente (e forse anche in virtù della cronaca del tempo) accentua la curiosità e l’interesse verso quel viaggio così estremo di cui lo stesso regista americano ricorda in questo modo secondo la testimonianza ripresa dall’agenzia giornalistica Dire.
“È un posto – ha raccontato Cameron – molto lunare, molto desolato e molto isolato. Mi sono sentito come se nello spazio di un giorno fossi andato su un altro pianeta e fossi tornato indietro. È un mondo assolutamente uniforme, del tutto alieno. Precipitare nel baratro spalancato dell’oceano, attraverso l’oscurità, è un qualcosa che un robot non è in grado di descrivere. Dalla mia prospettiva è stato il culmine di un sogno lungo una vita. Spero di non dover scegliere mai tra il mio amore per la ricerca oceanica e il lavoro nel cinema ma di portare avanti queste due passioni parallelamente”.
E, a proposito di future promesse, sono state mostrate, nell’ultimo scorcio della Mostra, anche le opere dei due vincitori finalisti del Biennale College drammaturgia. Sono Carolina Balucani con “Addormentate” e “Cenere” di Stefano Fortin. Per la “mise en lecture” dei due testi sono stati chiamati a Venezia, la regista Giorgina Pi per “Cenere” e Fabrizio Arcuri per “Addormentate”. Ambedue i testi dovrebbero vedere in futuro un allestimento vero e proprio. Ad un primo impatto i due lavori mostrano d’altra parte dei limiti che dovrebbero poi essere corretti in scena. Entrambi in qualche modo sono relazionati alla post adolescenza avanzata (ma quando è che in Italia si cresce e si lascia il nido?).
Il più problematico, e già molto di più di una “mise en lecture”, è quello curato da Arcuri che ha anticipato qualche scena dello spettacolo che verrà, o potrà venire. Questo appare come una sorta di favola contemporanea _ passaggio dall’adolescenza alla maturità _ripresa dalla celebre “Addormentata nel bosco”. In scena a interpretare le addormentate sono Vincenzo Crea, Gabriel Montesi, Andrea Palma, Dajana Roncione e Maria Rovesan. Difficile esprimere un giudizio su qualcosa che è apparso ancora in nuce, e per certi versi con un po’ di confusione. Una dopo l’altro le quattro donne si addormenteranno, ma si risveglieranno “trasformate in uno stormo di uccelli che si alza in volo, in un cielo azzurro che oltrepassa il campo di grano”… Insomma tra metafore, rimandi e matrici fiabesche resta un bel po’ di incertezza, come se qualcuno non avesse ancora colpito l’obiettivo grosso.. In questo caso meglio aspettare l’allestimento del prossimo anno, dove tutto si chiarirà. Più strutturato il testo di Stefano Fortin, “Cenere” , che per quanto riguarda chiarezza di intenti e linearità drammaturgica va molto meglio. Molto efficace la lettura messa in campo da Giorgina Pi, regista che ama le sfide difficili. Il testo parte da un dato di cronaca: l’eruzione di un vulcano islandese che riversò tre anni fa una marea di cenere su tutto il continente. “Cenere”, dice così l’autore ,“parte da una suggestione lucreziana: gli atomi (la nostra vita materiale destinata alla fine) vengono paragonati dal poeta al pulviscolo che intravediamo quando un raggio di sole entra da una finestra”.
Una corsa frenetica di granelli che scendono e salgono. Questa è l’ispirazione che parla di sopraffazione e soffocamento nell’opera strutturata in un prologo e tre quadri. La prima descrive la caduta della cenere, il secondo quella di un figlio che, chiamato dai genitori a fare colazione risponde con un rifiuto, il secondo di un poliziotto che deve annunciare ai genitori la scomparsa del figlio e infine quella della vittima che parla di sé e di quanto gli è accaduto. Cast di attori di rispetto: Sylvia de Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Valentino Mannias, Alessandro Riceci e Giulia Weber e sound design di Valerio Vigliar. Giorgina Pi ha l’accortezza di soppesare con abilità le qualità degli attori disponendoli armonicamente come in una cantica in cui il leggere appare come un recitar/cantando con una rigida disposizione ritmica a cui gli attori si attengono con disciplina. Ne viene fuori una “mise en lecture” polifonica, con le voci a girare che danno la sensazione di far levitare un piccolo vortice sonoro che va a chiudersi come in un cerchio con l’ultimo denso monologo letto con drammatico incedere da un’eccellente Mannias.
Bello popolato anche il settore delle performance en plein air, tra Campo Sant’Agnese a via Garibaldi: da Morana Novosel con “Fluid Horizons” a Gaetano Palermo in “Swan”.
In Biennale era presente anche Romeo Castellucci che ha riproposto per diverse sere il suo “Domani”, installazione performance già presentata lo scorso anno alla Triennale di Milano, e in cui l’autore si confronta con il tema dell’ignoto interrogandosi su “ciò che non sappiamo di non sapere”. Il pubblico accede alla grandiosa sala nel primo piano della Scuola di Santa Maria della Misericordia e scopre -magie del teatro – un luogo sensazionale, una immensa sala di 49 metri di lunghezza, 20 di larghezza e 12 di altezza: alle pareti ritratti di profeti, dipinti attribuiti alla scuola del Veronese. “Domani” , povero e disadorno, incerto tra installazione e performance, costruisce immagini di senso non compiuto che stanno in un tempo fuori dal tempo. Pezzi di utopia dispersi nel vuoto, puri singoli momenti che galleggiano come reperti di lontane ere geologiche. Dentro lo spazio enorme, vasto come il nulla la performer brasiliana Ana Lucia Barbosa, bulbi bianchi al posto degli occhi, lunghi capelli castani, un impermeabile leggero stretto in vita da una cintura, sciamana giunta da un’altra latitudine temporale, si muove a caso come una rabdomante, tenendo per le mani un lungo ramo di un faggio alla cui estremità è infilata una scarpa. Così si sposta nello spazio illustre, tallonata discretamente dalla folla degli spettatori che deambula come un branco indisciplinato in base al “sentire” i movimenti e le direzioni prese dall’altissima performer che ad un tratto, liberatasi dell’abito e rimasta in sottoveste, continua l’esplorazione dello spazio entrando in simbiosi progressivamente con la musica, inizialmente composta da cinguettii di uccelli e poi, in sincronia con l’aumento parossistico dei movimenti della performer, che colpisce ripetutamente e con forza lo zoccolo delle pareti, si registra anche quello dei suoni (opera del solito inseparabile collaboratore pluridecennale, il compositore Scott Gibbons) diventati sempre più cupi, metallici e assordanti, una tempesta sonora che squassa e lascia muti.
A dare la sveglia infine è arrivata “Catarina e la bellezza di uccidere i fascisti” O, per dirla in portoghese, “Catarina, e a Beleza de Matar Fascistas” potente opera di Thiago Rodrigues che ha fatto calare il sipario sulla Biennale teatro, nello spazio del Piccolo Arsenale, con oltre dieci minuti di applausi e numerose chiamate agli attori sul palco.
La decisione di chiudere il festival “Esmerald” con questo atto fortemente politico fa da pendant alla decisione, in apertura di Biennale, di attribuire il premio alla carriera al regista Andrea Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza di Volterra. Scelte coraggiose e impeccabili sul piano dei contenuti. Merito della direzione Ricci/Forte che questa edizione ha comunque navigato su una più che dignitosa programmazione registrando momenti alti, vedi la presenza dei fiamminghi FC Bergman e l’approdo in Italia di uno spettacolo problematico e stimolante come “Hamlet” di Boris Nitkin. C’è da ricordare anche l’esperienza dei college dedicati alla drammaturgia, destinati a diventare futura fucina di talenti. Giudizio positivo anche per Biennale College dedicato alla scrittura con giovani aspiranti critici guidati dallo studioso e critico Andrea Porcheddu, coadiuvato dalla studiosa Roberta Ferraresi, che hanno pubblicato una fanzine sul sito della Biennale.
Tornando a “Catarina”, la sveglia in oggetto, prima che scada il tempo, viene da un’opera che senza tentennamenti accende un faro sulla marea montante dei populismi, con la conseguenza di assegnare un uppercut a chi è diventato un bell’addormentato della democrazia, convinto, soprattutto in Europa occidentale, che il ritorno a regimi reazionari sia solo un brutto ricordo del passato. Invece è una emergenza. Forse meno evidente due anni fa, allorché il regista lusitano (da questa primavera direttore artistico del festival di Avignone) decise di mettere mano a questa tragedia della nostra contemporaneità. L’invito è ad aprire gli occhi e riflettere su quanto sta accadendo in questi giorni. Anche perché si scrive di Portogallo ma si deve leggere Europa. Una cartina di tornasole dell’aria che tira è quella delle politiche legate all’immigrazione dove i ventiquattro stati dell’Ue non riescono a trovare un’intesa per via dei veti di Polonia e Ungheria, governate dalla destra. Ma l’aria è bassa anche d’altre parti. Vedi la Francia dove nei giorni scorsi il Paese è andato a ferro e fuoco dopo l’uccisione di un diciassettenne da parte di un poliziotto. Su temi come immigrazione, emergenza lavoro, sicurezza e tasse, il populismo si insinua come una lama con discorsi incendiari che nascondono il nulla. L’opera di Thiago va così alla radice dei problemi in modo profetico. Il suo è un teatro senza catarsi, incline ad essere dialettico. Cita Bertolt Brecht anche nella recitazione straniata degli attori, ma sembra avere anche altri padri nobili. Lo spettacolo dura due ore e trenta ma appassiona, come un noir, lasciando poche vie di fuga. L’inizio è bucolico: sembra addirittura la citazione di uno stralunato “Giardino dei ciliegi”… E niente fa presagire un epilogo drammatico.
La casa di legno sul palcoscenico si apre in modo modulare. In mezzo sta una solitaria quercia. Questa famiglia del sud del Portogallo, da mezzo secolo tiene fede a una vendetta a cui devono partecipare tutti, una volta raggiunti i 26 anni: dare la caccia e far fuori un fascista per volta. 26 anni era l’età che aveva la contadina dell’Alentejo Catarina Eufèmia, uccisa da un tenente fascista durante uno sciopero. Fu vendicata dall’amica Sophia, che da allora volle istituzionalizzare il rituale, quasi una faida eterna. Ora toccherà a chi ha raggiunto quella età. In questa giornata particolare uomini e donne indossano le lunghe gonne tradizionali e si chiamano tutti Catarina in ricordo della vittima del 1954.
Troneggia una tavola imbandita con un ricamo in evidenza: “Nao passarao” (non passeranno). L’euforia ha elettrizzato i familiari in attesa del gran momento quando… improvvisa giunge la crisi di coscienza della Catarina prescelta per l’omicidio di un deputato del Parlamento, sequestrato e condotto prigioniero alla Casa. Qui stanno il cuore e gli interrogativi sottintesi. Come si possono arginare i crescenti populismi e il ritorno al potere della destra estrema? Di sicuro non funziona la ricetta del clan che ogni anno elimina un fascista. Assolutamente incompatibile con una società democratica. Il dubbio percorre anche le altre Catarine ( Antonio Alfonso Parra, Romeu Costa, Antonio Fonseca, Beatriz Maia, Marco Mendonca e Rui M.Silva )messe davanti al rifiuto della predestinata che improvvisamente, con il suo diniego, fa traballare l’impalcatura di un rito che prevede un capro espiatorio. La risposta è netta e contraria alla giovane che, dopo aver partecipato al sequestro del politico, improvvisamente vorrebbe porre fine a questo costume. E indica prioritario il ritorno alla politica, al dialogo on le persone, lavorando in campo culturale per superare gli estremismi.
Le posizioni però sono troppo distanti. Lo scontro tra Catarina madre che ha ucciso sette fascisti (una straordinaria Isabel Abreu) e Catarina figlia (la giovane Carolina Passos Sousa) -uno dei momenti più alti del dramma- è durissimo. Incalzante il confronto tra le due donne: ma nel botta e risposta non sembra che le tesi dell’una riescano a prevalere su quelle dell’altra. Chi combatte per le idee di libertà deve essere pronto anche a morire. Ma uccidendo una persona non si toglie di mezzo un’idea.
Insomma: da una parte c’è chi finora ha ucciso seguendo l’imperativo di liberarsi da un regime e sente di avere comunque delle ragioni forti in nome anche della collettività. Dall’altra, chi non vuole i martiri non sembra però avere idee altrettanto forti e vincenti per convincere fino in fondo tutti a deporre le armi.
Catarina figlia, divorata dal dubbio come Amleto, pensa che la decisione di uccidere sia un atto di responsabilità personale. Tutto ruota attorno alle scelte possibili. Come relazionarsi davanti alla minaccia in arrivo? Attorno alla tavola intanto siederà anche la vittima designata (Pedro Gil) abbigliato in giacca e cravatta, aria dismessa, sguardo fuggente. Dall’altro lato chi è stato vittima delle falangi che hanno ucciso, violentato e ucciso. Chi si è ribellato e ha impugnato le armi ha fatto male? Ha fatto bene? E adesso è riproponibile lo stesso comportamento, oppure deve tornare nel proprio cantuccio? Oppure stare in mezzo al guado come il fratello di Catarina che gira per il palcoscenico con le cuffie incollate alle orecchie ascoltando musica, e decidendo di non scegliere. C’è un importante assente ed è il popolo. Il confronto infatti è andato avanti in modo ristretto ed elitario.
Nella pièce siamo giunti così al redde rationem. Catarina fa da scudo alla vittima predestinata mentre i parenti tirano fuori le pistole. Cadranno uno dopo l’altro uccisi da un fucile esterno (la polizia probabilmente ha localizzato il cellulare del deputato). Tutti uccisi. Eliminati.
Si salva solo la vittima designata, il deputato che -quasi non fosse accaduto niente – per mezz’ora arringa come se si trovasse in un palco o alla tivù. Il suo è un discorso che fa gelare il sangue per quanto è simile o identico ad altri resi da fascisti e populisti di mezza Europa e ascoltati in Spagna, in Grecia, in Germania o in Italia. Demagogia a buon mercato, slogan ripresi dalla spazzatura della storia, odio per le minoranze e i diversi, minacce alla libertà etc…
Gli spettatori ascoltano in silenzio mentre a qualcuno sfugge uno stizzito gesto di rabbia.
Non c’è happy end in “Catarina e a Beleza de Matar Fascistas” mentre il lungo atto unico spiattella la realtà. La sensazione è di un generale smarrimento, L’assenza di risposte da parte del dramma ha lasciato disorientato molti. Che fare? In che direzione andare? Rimane solo un desolante e cupo pessimismo per il nostro domani.Verità e intuizione, le stesse che si rintracciano in una poesia di Bertolt Brecht, capace di guardare oltre il proprio tempo, fotografando bene il nostro:
“E voi, imparate che occorre vedere / e non guardare in aria; occorre agire/ e non parlare. Questo mostro stava/ una volta per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora non/ cantiam vittoria troppo presto/ il grembo da cui nacque è ancora fecondo”.
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