Teatro
Biennale Teatro: Elettra dei nostri giorni, oltre la saga
VENEZIA _ Cercasi disperatamente Elettra. Un provino per chi dovrà interpretare la figlia di Agamennone. E la prescelta deve essere assai speciale. Come vuole Lua, matura regista incaricata di montare un allestimento tragico, protagonista, nonché autrice e interprete di un folgorante, scoppiettante, queer, camp e, persino, al limite del noir “Elektra unbound”. No, non è una tragedia né il rifacimento pop di un classico, seppure i temi siano d’attualità: la famiglia, la società, il mondo giovanile e pure lo stesso teatro. E’ piuttosto una commedia attraversata da filamenti neri, dove talvolta si ride e si resta inquieti come accade in un dramma dei nostri giorni. Testo ancorato a radici di classicità è contagiato da un’aura di violenza, morte e inganni che lascia scorgere il mondo rovesciato di oggidì, tutto scarti veloci come l’avanzare pulsante dei frames di un social network. “Elektra unbound” di Luanda Casella, teatrante brasiliana residente in Belgio, ospite nei giorni scorsi al Piccolo Arsenale di Biennale Teatro, ultima edizione curata da Ricci/Forte. Casella, autrice regista e interprete volitiva pensando al personaggio di Elettra, piuttosto che alle “Coefore” di Eschilo, dove è solo una ragazza che piange o quella di Euripide, percorsa da crisi di colpa, punta al carattere di donna già adulta, raccontata da Sofocle: determinata nel farsi giustizia anche da sè quando le giunge la notizia (rivelatasi poi falsa) della morte del fratello Oreste con cui ordirà la vendetta finale.All’orizzonte non c’è quindi né una messa in scena di quelle tradizionali (anche se dei testi originali, volta per volta, sono evidenziate incongruenze e situazioni al limite del comico), nè tanto meno un “ennesimo allestimento femminista”. “Cosa devo farci con una saga greca? Cosa me ne frega – dice la direttrice del play – di una che piange suo padre e si taglia i capelli per un secolo intero?”
Dal sottotesto di quelle tragedie Lua vorrebbe tirare fuori qualcosa di più estremo: l’odio verso la madre Clitennestra, colpevole di aver ucciso il marito Agamennone al rientro in patria dopo i dieci anni trascorsi a Troia, reo di aver sacrificato alla guerra la loro figlia Ifigenia.
Lua, che progressivamente nel corso del dramma diventa un alias di Clitennestra, vuole quindi disegnare un’altra Elettra, non più legata al genere ma una sorta di superwoman capace di andare oltre la madre. Eppure, a compiere la vendetta suprema non sarà lei ma un uomo, il fratello Oreste. Elettra è così vittima di una maledizione, preda di un destino da cui è impossibile fuggire.
Ecco il piano di Lua: “Lucius! Ho una visione… Prendiamo delle disperate! Quelle che nessuno prenderebbe.Voglio quelle che vomitano per strada e poi si accendono una sigaretta, le abbandonate, le trascurate, quelle che odiano le proprie madri!”.
Parte la giostra dei provini -la macchina hardcore della piéce -condotta da Lua e il terribile assistente e coreografo Lucius, personalità spiccata e con il quale ha un rapporto di potere fatto di connivenze e crudeli affinità che si manifesta via via che le aspiranti Elettra vengono interrogate e messe alla prova: un progressivo e crudele gioco al massacro fino a rivelare, compreso Lua stessa, un sentimento di furioso risentimento contro le madri. La regista vuol tirare fuori tutto l’odio che le aspiranti attrici, Abigail, Emma e Bavo (formidabili in scena) possono esprimere. Con sottile perfidia ne sonda pervicacemente il privato, le blandisce e le maltratta, con qualcuna allude a possibili scambio di favori sessuali per avere la parte in un allestimento che non si farà mai. Tutto in Lua è finalizzato al compimento del proprio progetto artistico e di vita. Spinge a fondo l’accelleratore delle fragilità e sofferenze individuali fino a farle esplodere. Lua e Lucius vogliono che la loro Elettra sia percorsa da un odio mortale.
E’ una idea di teatro che spinge la strana coppia a cercare una verità (crudele) di rappresentazione. La madre di Abigail in veste di manager ha seguito la figlia nei concorsi di bellezza mettendola da parte poi in favore della sorellastra più bella. Improvvisata e sinistra alchimista Abigail gira con bottiglie piene di liquidi, una specie di multivitamici “rinforzati”. Emma invece è rampolla di famiglia ricchissima che con i soldi sa di poter acquistare tutto, anche la parte di Elettra. Odia la madre che la copre di regali, l’asseconda e poi ne imita i comportamenti. Infine il caso più sgangherato. Quello di Bavo, ex starlette infantile e figlia di una attrice alcolizzata sul viale del tramonto che in passato interpretò il ruolo di Clitennestra. Sempre fatta e ubriaca vorrebbe superare la madre spesso oggetto di scandalo nei tabloid. Sembrano eroine uscite fuori da pellicole stelle e strisce di serie B. Casella è abile a inanellare citazioni letterarie al femminile, da Charlotte Bronte a Jane Austen, fino a cucire assieme frammenti tragici dei classici su Elettra. Ma anche citazioni di pellicole note o meno, cristallizzatesi nella memoria di molti. Storie di disperate solitudini che un giorno si accendono per finire divorate dal fuoco stesso della disperazione. C’è qualcosa di distopico nelle scene realizzate da Shizuka Hariu che rinviano a luoghi estremi da fine del mondo. La musica di Pablo, fratello di Luanda dà poi il giusto ritmo e suono a scenari apocalittici.
Manipolate sino in fondo dai due burattinai, le giovani aspiranti attrici spingono all’estremo il loro malessere finchè questo deflagrerà nel momento centrale del dramma. Le tre attrici si vendicano sulle loro madri uccidendo Lua/Clitennestra. Tre omicidi, uno dietro l’altro in diversa modalità, con l’epilogo drammatico disegnato e voluto in fondo dalla stessa regista. Suggerisce che sia stato frutto di un piano preordinato da lei stesso che muore ogni volta rivelando: “Ho sempre sognato di morire a teatro”.
“Elektra Unbound” è una sorpresa. Irriverente e divertente allo stesso tempo suggerisce percorsi inediti alla sperimentazione teatrale. Unisce rigore, arte d’attore ad alti livelli dei suoi protagonisti: iniziando ovviamente da Luanda Casella e il suo assistente Lucius Romeo-Fromm, e le aspiranti Elettre Abigail Gypens, Bavo Buys ed Emma Van Ammel. In modo fluente e disinvolto veleggia costantemente tra alto e basso, raffinata cultura e approccio popolare. Anche il gioco del teatro nel teatro con la rivolta degli attori è evidenziato con intelligenza. “Elektra Unbound” è insomma la dimostrazione di come, fuori dall’Italia, in Europa, esista un’arte teatrale in costante espansione e crescita in tutti i suoi comparti. Tale da farci rimettere i piedi per terra nel caso della nostra scena in molti casi carente per esercizio fisico, capacità di studio e voglia di esplorare nuove possibilità espressive.
Questo non è certo il caso di Giorgina Pi, teatrante di punta di respiro internazionale che proprio a Venezia, in quegli stessi giorni, ha messo in scena con la sua compagnia Bluemotion, “Cenere” del giovane Stefano Fortin, uno dei testi vincitori di Biennale College. Diciamo la verità, il racconto non è male, anche se a una prima superficiale lettura è apparso di difficile resa sul piano spettacolare. Già lo scorso anno, la regista romana realizzò una convincente mise en lecture con i suoi strepitosi attori, ispirandosi al genere del radiodramma. E quella è stata anche la base di partenza per la mise en scena di un copione che non offriva limitate chances di realizzazione. Ma Giorgina Pi, come abbiamo spesso osservato, è artista che ama le sfide impossibili. Così è stato ad esempio nel caso dell’allestimento “Pilade” dal testo originale di Pier Paolo Pasolini, prodotto dall‘Ert, Teatro Nazionale Emilia Romagna con debutto a Bologna. “Pilade” non è certamente un testo di facile realizzazione come molti testi teatrali del poeta cineasta bolognese, ma in questo caso Giorgina ne tirò fuori uno spettacolo ricco e coraggioso con un eccellente cast a disposizione.
Lo stesso in grande parte presente in questa originale traduzione in scena di “Cenere” che, rispetto alla lettura dello scorso anno è salita decisamente più su di un gradino con un potente mix fatto di bravura degli attori, felici intuizioni dello spazio scenografico, la Sala d’Armi dell’Arsenale occupata in toto centralmente con gli spettatori seduti ad anello. Quindi pienamente dentro la storia. O meglio porzioni di una storia dal decorso parallelo -un prologo e tre quadri distinti -dove il tempo è scandito dalla massiccia e continua caduta di cenere dal cielo dovuta alla eruzione (2010) del vulcano Eyjafjöll in Islanda. Una cenere che cade silenziosa sul mondo come la pioggia di “Blade Runner”, lenta e insistente accorcia il respiro, brucia il tempo e toglie la voglia di vivere. Storie legate da fili lattiginosi, come suggeriva visivamente la selva di luci che sciabolando sui personaggi dava un touch vagamente noir da cinema americano in bianco e nero. A guidare nell’intreccio, mettendo in contatto fiction e realtà esterna la solida conduzione di Valentino Mannias, nel ruolo restituito in modo preciso, quasi brechtiano, di guida che forniva la voce fuori campo, ma in vista, dell’autore narratore (e si conferma attore in forte crescita, uno dei migliori delle ultime generazioni).
A fare da corredo a due teatrini speculari. Il primo, quello che coglie nella quotidianeità, padre, madre e figlio di diciotto anni che, chiamato a far colazione, non risponde. Ha l’incedere di una piéce pinteriana il dialogo tra i due genitori con i personaggi che sentono su di loro costantemente una minaccia fisica, fatta di rumori provenienti dal soffitto o sotto il pavimento (i topi?) e mentale: il rapporto difficile e quasi impossibile con un figlio in crisi di crescita. L’altro sipario è quello del dramma già avvenuto e sembra ripreso da un film poliziesco, con gli agenti che presidiano il luogo del crimine o forse di un suicidio. C’è nervosismo nell’aria e i rapporti personali sono sul punto di andare in frantumi come se ci si muovesse in modo maldestro dentro un negozio di chincaglierie. Suona il telefono, scatta la segreteria; è una voce femminile: la madre informa il figlio che i genitori sono bloccati all’aeroporto di una città lontana per via della cenere che continua a cadere e impedisce agli aerei di volare. Seguiranno altri messaggi di madre e padre a un figlio che non risponderà mai. Ultimo quadro, il terzo. La “vittima” prepara la sua uscita di scena. Segnata da atti minimi come la cancellazione della memoria nel pc e nel cellulare, solo la registrazione di una traccia audio da lasciare ai genitori mentre il male di vivere ha il sopravvento. Buio totale.
Oltre a Mannias impeccabili gli altri attori: Sylvia De Fanti, Giampoiero Judica, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia Weber, Cristiano De Fabriitis e Valerio Vigilar autore delle musiche che danno il giusto e necessario climax all’allestimento, anche con il veloce inserto live di chitarra e batteria, per il disegno sonoro del Collettivo Angelo Mai. Luci come sempre evocative e funzionali al dramma di Andrea Gallo.
In uno dei suoi primi spettacoli “Dances on glass” del 2001 c’era la metafora tra constrizione e piccoli spazi di libertà. Rispetto ad allora, in cui l’autore esprimeva tutto sommato uno sguardo ottimistico, grazie all’amore, verso il futuro, tutto è diventato più cupo, non solo in Iran dove la repressione sui diritti civili e sulla libertà di espressione è all’ordine del giorno, ma anche in Europa, dove la recente affermazione alle elezioni europee di partiti di area ultra reazionaria e apertamente fascisti, quegli spazi sembrano ora in pericolo anche nella terra della democrazia. Così in “Blind runner” ultimo suo commovente lavoro firmato per il Mehr Theatre Group, il drammaturgo iraniano Amir Reza Koohestani, residente attualmente in Germania, mostra una maggiore attenzione verso i migranti e la cancellazione dei diritti, non solo nella terra degli ayatollah ma ovunque. In questo allestimento andato in scena nello spazio delle Tese all’Arsenale, il racconto di soprusi e discriminazioni viene raccontata in circa un’ora in stretto equilibrio secondo i limiti imposti dalla censura iraniana.
I protagonisti, entrambi maratoneti, sono una giornalista rinchiusa in carcere per motivi politici e il marito. Nel grande spazio del palcoscenico il regista utilizza le luci per modellare, ampliare e restringerne le dimensioni, mostrando il carcere, i muri divisori e la sala visite dove avvengono gli incontri veloci tra i coniugi. I due che avevano immaginato una fuga attraverso la corsa nel tunnel sotto la Manica nello spazio tempo tra l’ultimo treno notturno e il primo diurno non riescono a cancellare la loro distanza nelle quotidiane visite al carcere. Qualcosa tra i due sembra incrinarsi, il rapporto si inaridisce in un rapporto quotidiano fatto di piccole incomprensioni. Sarà la donna a convincere il marito a riprendere il loro sogno accompagnando a Parigi come allenatore una giovane donna, Parissa, che, colpita da un proiettile, ha perso la vista durante una manifestazione per i diritti in patria. Con lei, allenandosi giorno per giorno, potrà rivivere quel progetto di correre dentro il tunnel, riscoprendo una coscienza politica sopita per ritrovare il senso di una lotta verso la salvezza e la libertà. Il confronto è minimo, piccole riprese video, e primi piani fotografici per marcare le distanze e l’ultima coinvolgente immagine delle luci di un treno in corsa che investono all’improvviso gli spettatori come un perentorio richiamo a sostenere chi mette in gioco la propria vita per un mondo libero e senza la repressione dei diritti umani. In scena: Ainaz Azarhoush e Mohammad Reza Hosseinzadeh. Luci: Eric Soyer. Drammaturgia: Samaneh Ahmadian. Musiche di Phillip Hohenwarter e Matthias Peyker.
Naturalmente come vuole una recente moda molto italiana, anche la Biennale ha il suo spazio dedicato alla performance site specific. E così a ridosso delle Fondamenta che costeggiano l’Arsenale si è potuta vedere anche l’esibizione (in realtà poco site specific) del performer e danzatore Elia Pangaro in “Bolide/Deus Ex Machina”” citazione futurista dedicata a Boccioni omaggiato con il suo celebre manifesto sulla velocità. Per una ventina di minuti evoluzione nel segno di dance interrupta su e giù e avanti e indietro del Pangaro con occhiali scuri e tuta da motard vintage. Seguito e fotografato in tempo reale da una signorina assistente e danzatrice. E’ tutto.
Ed ecco infine uno dei più celebrati spettacoli della stagione made in Italy, quello della romana Muta Imago, che ha puntato le sue carte su una importante reductio – forse dovuta in tempi di crisi – di personaggi nelle “Tre Sorelle” di Anton Cechov andato in scena alle Tese dei Soppalchi all’Arsenale. Regia di Claudia Sorace, drammaturgia di Riccardo Fazi interpretato da Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli e un quarto uomo dietro le quinte il musicista Lorenzo Tomio. Tanta tecnologia ed effetti speciali per certificare che non siamo più ai tempi del povero Cechov: si utilizzano ad esempio quasi allo sfinimento le luci bianche stroboscopiche (si, proprio quelle delle discoteche), musica elettronica e chitarra elettrica in diretta dove tendono a scappare via i decibel, con qualche distorsione in larsen di troppo.
Insomma una ricercata cornice per una singolare messa in scena del bellissimo testo cechoviano. Quello scritto nel 1900, inizi di un nuovo secolo e fine del zarismo. Mentre la Russia si prepara a vivere la stagione rivoluzionaria si percepisce quasi fisicamente nelle trame del testo cechoviano il mutamento antropologico di un’epoca vista in questo caso con gli occhi di queste tre donne, Olga, Masa e Irina che vivono sotto lo stesso tetto, la casa del padre, il generale Prozorov scomparso l’anno prima. Qui risiedono con le loro inquietudini, amori e desideri, illusioni e solitudini. La piéce inizia dalla fine con Masa che dice :“Se ne sono andati”. Da questo istante è tutto un ricordo, un inanellarsi di flasback segnati dall’ossessione dei ricordi e del tempo che passa. Le tre donne vestite di grigio agiscono in una scena angusta delimitata da pesanti tendaggi, confinate in un luogo neutro e senza identità dove si buca lo spazio temporale ascoltando le celebri note di “Tea for Two” cantata da Doris Day… un vero inferno… dove a qualcuna scappa forse per la tensione di andare sopra le righe con una recitazione strozzata, si suppone per simulare angoscia e paura del futuro.. chissà. Per il resto le tre attrici sono abbastanza in sintonia tra loro e forse non emergono bene le differenze e i caratteri per lasciare una sensazione di unità solidale.
Ma alla fine della corsa, dopo aver dato colpi forti all’impianto originale cosa resta? Anche perchè occorre registrare la grande assente: l’ironia. Quella ironia che serpeggiando sempre nei grandi drammi di Cechov aiuta a cogliere il giusto distacco comprendendo meglio la vita. Nelle “Tre Sorelle” ad esempio tra felicità e infelicità è quel tempo in sospensione tra una solare allegria e il malinconico abbandono del tramonto. “La gente che da tempo porta in sé una pena, e vi si è abituata, fischietta soltanto e resta sovrappensiero”…
Il reportage dalla Biennale di Venezia è riferito alle giornate dal 21 al 26. La Biennale Teatro diretta da Ricci/Forte si è aperta il 15 giugno con l’installazione di “Elephants in Room” di Gob Squad e si chiude il 30 giugno. Ultimo appuntamento “Medea’s Children di Milo Rau
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