Teatro
Belgrado: Milo Rau strikes again
Compie ben 50 anni il festival Bitef di Belgrado, una manifestazione che si identifica con la capitale serba e in cui, da sempre, la città si riconosce e si ritrova. Provate a pensare a quante trasformazioni, quante rivoluzioni ha vissuto Belgrado in 50 anni: nonostante tutto il Bitef ha continuato nella sua impresa di far dialogare oriente e occidente, blocco sovietico e blocco americano, far vedere spettacoli di tutto il mondo (qui debuttò l’Orestea di Luca Ronconi nel settembre 1972). E la città, avvolta da un inatteso sole di fine settembre, con la sua bellezza un po’ schiva che si riflette sui due fiumi, guarda avanti e accoglie con attenzione le proposte del Bitef, affollando i teatri.
Il festival, in epoche di crisi, non ha perso smalto, anche grazie all’energia del suo nuovo direttore, Ivan Medenica che si avvale di uno staff preparato e appassionato.
L’edizione del cinquantesimo si apre (molto) all’insegna del teatro tedesco. La Germania è un partner economico forte, fortissimo, della Serbia e il sostegno economico del governo Merkel, complice l’attenta azione diplomatica dell’ambasciatore tedesco a Belgrado, non è mancato: è stato anzi – a detta dello stesso Medenica – provvidenziale per dare al festival gambe con cui correre.
Apertura, dunque, molto teutonica, dove spicca un convincente, spiazzante, fastidioso, commovente spettacolo di Milo Rau.
Il regista svizzero-tedesco, qui prodotto dalla Schaubhüne di Berlino, colpisce ancora. Non si è ancora attutita, in Italia, l’eco del suo Five Easy Pieces (ne han parlato in molti: segnalo almeno Sergio Lo Gatto su teatroecritica e Attilio Scarpellini su doppiozero) e ecco che il teatro spietato di Rau mette a segno un altro colpo.
Compassion, the history of the machine gun è una sorta di spin off (o un prequel) di un altro spettacolo visto in Italia, quel Hate Radio (ne parlavo qui) che portava in scena la “Radio delle mille colline”, centro nevralgico nello scontro rwandese tra Hutu e Tusti. Con Compassion, Rau torna a parlare di quella vicenda, ma lo fa prendendola – come si dice – alla lontana per riflettere su altro.
Sulla scena, ricolma di oggetti di scarto (bottiglie, plastica, cavi, rifiuti, scarti), a sinistra, siede l’attrice Consolate Siperius. Si presenta, parlando a una telecamera che le ingigantisce il volto proiettato su uno schermo sul fondo. Racconta la sua storia: è una testimone dei massacri rwuandesi, scampata da bambina e adottata da genitori belgi. Poi entra la splendida Ursina Lardi. Attrice straordinaria, di raro talento: qualcuno la ricorderà ne Il matrimonio di Maria Braun. Ebbene, la Lardi entra disinvolta e comincia a riflettere sull’arte dell’attore, sulla necessità di una assoluta aderenza, di una profondità totale, di una identificazione estrema in quel che si fa. Partecipazione e responsabilità, insomma, che le mancano – e qui inizia a divagare – quando si rapporta al “dolore degli altri”. Inizia così un lungo, incredibile monologo: anche lei ripresa dalla telecamera in un primo piano stretto, racconta della celebre e triste immagine di Aylan, il bimbo di tre anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Commenta, l’attrice, il dolore e lo strazio collettivo. Ma le si dissocia, prende le distanze, anche con battute sferzanti.
Poi – così, disinvolta, come fosse in una chiacchierata, sorridendo – racconta del viaggio fatto con il regista prima in Grecia, a Kos, poi in Africa, sulle rotte dei rifugiati, per raccogliere testimonianze: gli incontri con i giovani locali, tutti hypster, vista la barba; i campi super organizzati; svela la retorica dell’accoglienza. Sempre chiacchierando, torna per caso alla sua storia di ragazza, quando fu spedita da una ONG in Congo, al confine con il Rwanda.
Venti anni prima proprio quando sarebbe scoppiata la feroce guerra tra Hutu e Tutsi. E qui si apre il baratro. Il racconto allucinato e allucinante del massacro, dell’invasione rwandese nel campo congolese. Lei, giovane, giovanissima, che ha visto tutto, che ha sentito tutto, usava Beethoven per coprire il rumore delle grida. Lucidamente ricorda, evoca, spiega.
Ursina Lardi immobile al leggio, di fronte alla telecamera, trascina il pubblico in una spirale di allucinante violenza. Unico gesto che si concede, oltre a sistemarsi ogni tanto i capelli biondi, è bere un sorso d’acqua: tre sorsi da tre diverse bottigliette, ogni sorso un diverso stato d’animo, una diversa tensione. Nella straziante storia evoca Dogville di Lars von Trier, e infine imbraccia il Kalashnikov anche lei.
È la sua vita? È quella del “personaggio”? È un ricordo? O è “teatro”?
Il gioco intelligente di Milo Rau con Compassion, the history of the machine gun supera la tensione brechtiana. Certo, quello che fa è teatro politico, di testimonianza, è epica assoluta: eppure Rau inserisce un drastico e forte elemento mimetico – l’adesione, appunto – che fa esplodere l’esperienza dello spettatore. Sapientemente, spezza la “denuncia”, la narrazione, il distacco critico per affondare in una mimesi tragica, commovente addirittura straziante. Il focus, il nodo centrale di questo lavoro è la “compassione”, quella farlocca solidarietà emotiva tutta europea, di chi sta a guardare e si limita a mettere un like su fb o a mandare un sms.
Cosa facciamo dopo esserci indignati? Dove porta tutto il nostro magone, il senso di colpa, la ferma solidarietà?
Milo Rau non fa sconti: è il teatro alla sua ennesima potenza. Tagliente e ironico, presente e vivo, cinico e aspro. Efficace? Certo non provoca la rivoluzione: questo lo sapeva già Bertolt Brecht, contrariamente a quanto sperasse il suo collega Piscator. Rau, però, gioca le sue carte. Se un valore c’è, ancora, nel teatro è di usare tutti gli strumenti a disposizione per porre domande, scardinare i luoghi comuni, chiedersi qual è la distanza tra compassione e solidarietà. Che fine abbiano fatto, infine, la giustizia e la speranza.
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