Teatro
Bambini, zucchine e anatroccoli
C’è un piccolo, splendido film nelle sale in questi giorni. Si intitola La mia vita da zucchina, edè una creazione di Claude Barras. Ci sono andato con mio figlio decenne: e ci siamo commossi, abbiamo riso, e soprattutto abbiamo parlato, dopo, dei tanti temi che quel “cartone” toccava con grazia e acume. Il film svizzero-francese, presentato con grande successo allo scorso Festival di Cannes, racconta la storia di un bimbo di nove anni: uccide colposamente la madre che lo maltrattava e finisce in una casa per orfani, fortunatamente graziosa e gestita con amore. Qui trova un bulletto figlio di tossicodipendenti, una ragazzina di colore con madre esplulsa, incontra una coetanea il cui padre ha ucciso la madre… Una piccola comunità, dove lentamente si ambienta.
E il film intreccia questi casi tremendi, reali, vivissimi, con un lento cammino di formazione e di ritorno alla vita che Barras – con i suoi formidabili collaboratori – tratta con estrema sapienza. È un film importante, che non si nasconde dietro il buonismo dominante, ma affronta seriamente fatti concreti della vita, senza edulcorazioni o estetismi manierati.
Mentre guardavo La mia vita da zucchina, tenendo stretta la manina del decenne che mi sedeva accanto, ripensavo a uno spettacolo visto giorni fa al Teatro Koreja di Lecce, in una di quelle matinèe piene di vita e entusiastico candore che sono del nostro teatro ragazzi. Lo spettacolo era Diario di un brutto anatroccolo, della Factory Compagnia Transadriatica diretta da Tonio De Nitto.
Spettacolo incisivo e delicato assieme, che prendendo spunto dalla celebre fiaba di Andersen, apre a spiragli di dolente attualità. Anche in questo caso, non si fanno sconti, non ci sono i soliti principi a risolvere tutto o a cambiarti la vita.
La storia dell’anatroccolo, infatti, esce presto di metafora ed abbraccia smaccatamente, anzi, varie situazioni di concreta brutalità (anche in modo contraddittorio, come perfettamente notato dai bambini nel dibattito dopospettacolo). E la fiaba si fa presto cupa, quasi alla Tim Burton: dal bullismo a scuola all’illusione dell’amore, dallo sfruttamento sul lavoro alla disoccupazione, e poi la guerra, la violenza.
Su tutto vi è la fatica di diventare se stessi, di trovare un’identità e un posto al mondo. È questo il nodo della storia e qui, forse entra un necessario “lieto fine” che è consapevolezza e maturità.
D’altronde: quando si diventa adulti? E come?
Un tempo si diceva: trovi un lavoro, ti sposi, fai un figlio e sei adulto. Ma oggi? Il lavoro non c’è, ormai si vogliono sposare solo i gay e la natalità è ridotta al minimo. Non è un caso che restiamo figli (o bambini) troppo a lungo. Forse l’adultità è nella consapevolezza, nella accettazione di sé e degli altri. In uno sguardo partecipe ed empatico sul mondo oltre che sulla propria vita. Fare i conti con i propri errori, con le ambizioni, i fallimenti, le speranze, i cambiamenti necessari e quelli imposti, pensare a quel che si aspettano gli altri e a quel (poco) che tu puoi dare. Poi, magari, provare a dire, a gridare (sussurrare sarebbe meglio) proprio “io”, come fa l’anatroccolo della Compagnia Factory che riuscirà, finalmente, ad essere se stesso.
Giocato sui codici della danza e del teatro, con trovate acute e divertenti – tanto per dirne una: le pinne da mare a simulare i piedi palmati (i costumi sono di Lapi Lou) – con molta semplicità, efficacia ed ironia, lo spettacolo non perde di vista il tema della diversità che la protagonista, l’ottima debuttante Francesca De Pasquale, restituisce con grande intensità e umana partecipazione.
Con lei in scena, ad alternarsi in molteplici ruoli, i bravi Ilaria Carlucci, Luca Pastore e Fabio Tinella. Le musiche, a tratti molto presenti, di Paolo Coletta attraversano Tchaikovsij e danno corpo alle scene eleganti e visionarie di Roberta Dori Puddu.
Di fronte a quella zucchina, a questo anatroccolo, ridono i bambini, ridiamo noi adulti che li accompagniamo. Ma poi, a ben sentire, cresce un pensiero impastato con un sottile magone. La vita è là, attende questi piccoli spettatori, futuri cittadini: “lieti e pensosi” vanno avanti in questo paese allo sfascio. E un sorriso stempera quella lacrimuccia che svelti svelti asciughiamo per non farci vedere commossi.
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