Teatro
Baccanti, una tragedia che non smette di sorprendere
CATANIA. Nel comprendere uno spettacolo come Baccanti di Euripide, prodotto dallo Stabile di Catania e diretto da Laura Sicignano, non si può fare a meno di partire da una considerazione chiara: il mondo classico (con quanto da esso ci perviene) è per noi una riserva inesauribile di alterità. Ovviamente non si esclude anche una relazione di identità e continuità tra quel mondo e la realtà che chiamiamo “occidente” ma, se si osserva bene la frammentarietà sostanziale di ciò che ci resta della classicità, è semplice capire come la dimensione dell’alterità sia preponderante. Solo a partire da questa considerazione si può spiegare la possibilità di utilizzare un testo come Baccanti per cavarne uno spettacolo che parla al presente. La vicenda mitica del re Penteo che, per tracotanza e paura, vuole vietare a Tebe la pratica del culto dionisiaco, che quindi si lascia convincere a salire sul Citerone per spiare il momento parossistico di quel culto, ovvero la misteriosa orgia, e che finisce con l’essere sbranato dalla sua stessa madre/baccante Agave, viene letta con interessante consapevolezza prospettica e utilizzata come plot drammaturgico per indagare e illustrare una dinamica umana ancora presente tra noi: i pericoli che nascono dal rifiuto di un rapporto equilibrato con l’irrazionale, sia a livello politico-sociale, sia a livello psicologico. Pericoli che si acuiscono se si dimentica che questo “sacro irrazionale” è intimamente legato al femminile e all’accettazione della realtà come sostanza in incessante trasformazione in cui le donne hanno il ruolo, più o meno riconosciuto, oscuro, segreto, sempre osteggiato dal potere maschile, di protagoniste e di motrici.
Su questa idea poggia la costruzione dello spettacolo che, nei suoi punti di forza e in quelli di debolezza, si dispiega su due direttrici: la linea del sogno (o, se si vuole, dell’incubo) e la linea della riflessione sulla capacità del testo euripideo di contenere in nuce dinamiche teatrali o, più latamente, culturali che arriveranno a maturazione nei secoli successivi. Ovviamente si tratta di due direttrici che procedono incrociandosi, sovrapponendosi, confondendosi e arricchendosi reciprocamente.
Sulla linea del sogno e della presenza dell’irrazionale nella vita e nella storia, si pone anzitutto l’interessante (e molto bella) scenografia di Guido Fiorato: ci svela dove la regista vuole piazzare questa sua relazione creativa con la feconda alterità di Baccanti. L’interno sontuoso, sbrecciato, verdastro di muffa di una antica villa liberty o di un museo (come invece è spiegato), con quel classicismo languido che allude a un rapporto malato, arreso e passivo con la realtà (e non più di dominio attivo). È la temperie culturale del periodo tra ottocento e novecento che parla, un periodo culturalmente fertilissimo, con quella sua apertura intellettuale al sogno, all’irrazionale (con le interpretazioni e le teorie psicanalitiche che ne deriveranno), a nuove mitologie, a derive di pensiero superoministiche e poi violente, ma anche a riletture estreme (angeliche e/o demoniache) della figura della donna, operate da intellettuali e artisti europei come Baudelaire, Strindberg, Wedekind, Bachofen, Hofmannstal.
A questo immaginario sembra volersi rifare la regista anche nella concezione e nella costruzione dei personaggi: un tentativo impegnativo sul piano della tenuta formale e pertanto non sempre tutto appare coerente e riuscito. Risultano efficaci e congrue rispetto all’ispirazione dello spettacolo le prove di Manuela Ventura (un Dioniso energico e giustamente androgino, del quale però si perde un po’ l’aspetto dell’oscurità del mistero divino molto presente in Euripide), di Egle Doria, di Lydia Giordano, di Silvia Napoletano (Baccanti sempre capaci di stare in sintonia con il movimento interno dello spettacolo), di Alessandra Fazzino (un’Agave dall’espressività più corporea e ripiegata internamente piuttosto che verbale e, tradizionalmente, retorica). Appaiono deboli e poco risolti invece i personaggi di Cadmo e Tiresia (rispettivamente Franco Mirabella e Antonio Alveario). Non appare ben definita, ed anzi è appesantita da un eccesso di segni e di elementi simbolici, anche la figura del messaggero: al di là della generosa prova attorale di Silvio Laviano, che ce la mette tutta per esprimere le troppe sfumature del personaggio (già molto complesso in Euripide), per come la regista ha provato a ripensarlo. Un discorso a parte va fatto per il personaggio di Penteo, la cui concezione è complessa, interessante, colta: un po’ boss di periferia, un po’ gangster, un po’ tiranno frustrato dalla presenza di un potere che lo sovrasta, portatore di evidenti echi brechtiani fino ad alludere, con la gracilità della persona e con i folti baffi neri a spazzolino, a protagonisti storici di terribile caratura politica. Un personaggio su cui, evidentemente, la regista ha riflettuto molto e che Aldo Ottobrino prova a realizzare con un impegno tanto evidente quanto abbastanza vanificato dalla presenza nella recitazione di sonorità idiomatiche (poco gestite) che ne indeboliscono la resa.
Sull’altra direttrice di lettura, la riflessione della regista sul dispiegarsi e sull’intridersi del testo di Euripide nella storia culturale dell’occidente si rivela chiaramente in altri due elementi: il lavoro di traduzione del testo euripideo e la costruzione del mondo sonoro e musicale entro cui si svolge l’azione. Anche questa volta Sicignano si è affidata a Edmondo Romano per il tappeto sonoro e per le musiche originali e suonate dal vivo: davvero un’ottima scelta, perché si tratta di sonorità che sanno dare profondità e colore di racconto vivo alla messa in scena, attingendo a una gamma di suggestioni che si apre da una cupezza ancestrale e legata alle sonorità della natura, alla musica popolare e financo al jazz. Altro elemento su cui volgere l’attenzione è sicuramente il lavoro sul testo euripideo condotto dalla Sicignano, ancora una volta, insieme con Alessandra Vannucci: non si tratta di una semplice traduzione ma di una vera e propria riscrittura che non soltanto sposta e reinventa nuclei, segmenti e parti del testo originale, ma vi inserisce e dissimula frammenti letterari e filosofici e citazioni (più o meno esplicite) che vanno dalla letteratura antica (Eraclito, Empedocle, Orazio, la Bibbia) alla filosofia moderna (Giordano Bruno), dalla grande poesia novecentesca di Dino Campana e di Thomas Sterne Elliot al pensiero femminista e al celeberrimo invito alla danza di Pina Bausch. Si tratta certo di un aspetto interessante dello spettacolo e rivelatore dell’entusiasmo con cui la regista ha vissuto questo progetto. L’intuizione, interessantissima, come si è scritto sopra, è scoprire che Baccanti custodisce in nuce molti degli sviluppi del teatro e della cultura occidentale dei secoli a venire e che di questi sviluppi si costituisce ancora, misteriosamente, come archetipo fecondo e continuamente operativo. Un’idea, un’intuizione fortissima che giustamente è veicolata dall’intera messinscena, ma è sottolineata precipuamente dal lavoro di cesello operato sul testo letterario. Alcune citazioni scompaiono nel substrato della traduzione come riecheggiamenti profondi e coltissimi, altre invece restano in superficie e dispiacciono per l’eccessiva semplicità con cui sono proposte: Orazio del Carpe diem, per l’accettazione vitalistica della materialità della vita, Bausch per l’invito a danzare, Giobbe per l’interrogazione sapienziale sul mistero del dolore. In scena a Catania (Teatro Verga) dall’11 gennaio al 23 di gennaio. Prossimamente al Teatro Biondo di Palermo, dall’1 al 6 febbraio.
Paolo RANDAZZO
Baccanti di Euripide, regia di Laura Sicignano, traduzione e adattamento di Laura Sicignano e Alessandra Vannucci. Con, in ordine di apparizione: Dioniso Manuela Ventura, Baccanti Egle Doria, Lydia Giordano, Silvia Napoletano, Agave Alessandra Fazzino, Tiresia Antonio Alveario, Cadmo Franco Mirabella, Penteo Aldo Ottobrino, Messaggero Silvio Laviano. Musiche originali ed eseguite dal vivo di Edmondo Romano, scene e costumi di Guido Fiorato, movimenti di scena di Ilenia Romano, luci di Gaetano La Mela, video e suono di Luca Serra, regista assistente Nicola Alberto Orofino. Produzione del Teatro Stabile di Catania. Crediti fotografici: Antonio Parrinello.
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