Teatro
Autobiografia del lavoro. Oliviero Ponte di Pino: l’organizzatore culturale
Oliviero Ponte di Pino ha lavorato per oltre trent’anni nell’editoria (Ubulibri, Rizzoli, Garzanti, di cui è stato direttore editoriale dal 2000 al 2012). Ha scritto su giornali e riviste, realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive per la RAI, ideato festival, curato mostre, progettato iniziative culturali e spettacolari (Subway Letteratura, Maratona di Milano). Insegna Letteratura e filosofia del teatro a Brera e conduce Piazza Verdi (Radio3 RAI).
Nel 2001 ha fondato il sito ateatro.it, dal 2004 cura Le Buone Pratiche del Teatro (con Mimma Gallina), dal 2012 cura il programma di BookCity Milano (con Elena Puccinelli), nel 2017 ha fondato il portale Trovafestival (con Giulia Alonzo). Nel 2019 ha inagurato lo spazio Bolzano29, a Milano, che cura con Giulia Alonzo.
Tra i suoi libri Il nuovo teatro italiano (La casa Usher, 1988), Enciclopedia pratica del comico (Comix, 1996), Chi non legge questo libro è un imbecille (Garzanti, 1999, La Libreria degli Scrittori, 2014), Il quaderno del Vajont (con Marco Paolini, Einaudi, 1999), I mestieri del libro (TEA, 2008), Le Buone Pratiche del Teatro (con Mimma Gallina, FrancoAngeli, 2014), Comico e politico. Beppe Grillo e la crisi della democrazia (Raffaello Cortina, 2014), Un teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale (Franco Angeli, 2021), Cultura. Un patrimonio per la democrazia (Vita e Pensiero, 2023)
Come è iniziata
Temo che la mia autobiografia come organizzatore culturale non sia molto utile per chi oggi si avvicina a questo ambito. Sono cresciuto in un’era in cui in Italia non si sapeva quasi che cosa fosse l’economia della cultura. Non esistevano i master specializzati e i corsi in materia erano pochi. Un’eccezione era quello pionieristico per “Organizzatore teatrale” alla Civica Scuola d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro di Milano (come si chiamava allora), che ho frequentato nella preistoria tra il 1975 e il 1977 (ma con una effimera specializzazione in critica).
Anche se poi ho fatto altro, quel corso è stato importante. Mi ha fatto capire che la cultura era anche impresa, ma soprattutto che era inserita in un sistema articolato in settori e sottosettori – ovvero campi di forze, come stava spiegando Pierre Bourdieu. Alla Civica ho iniziato a creare una rete di rapporti che poi è stata determinante, con Mimma Gallina e Maria Grazia Gregori, ma ho avuto anche maestri come Giorgio Guazzotti, Ettore Capriolo, Roberto Leydi…
Finito il corso, senza sapere nulla e senza aver fatto alcuna pratica, grazie a Maria Grazia nel 1977 sono andato “a bottega” – come si sarebbe detto una volta – da Franco Quadri. E lì, pagato poco e spesso con grande ritardo, insieme ad altri ragazzi e ragazze ho imparato un mestiere. Anzi, diversi mestieri. Perché Franco (che non spiegava niente a nessuno: ci chiedeva di fare) era insieme critico teatrale (“Panorama” e “la Repubblica”), giornalista (oltre che sulla carta stampata anche in radio e tv), editore (Ubulibri) e organizzatore culturale di altissimo livello (“Biennale Teatro”, “Teatrart”, “Orestiadi di Gibellina”, “Premio Riccione”, “TTVV”…). Un intellettuale curioso e inquieto, che coniugava ricerca, teoria e prassi, in una prospettiva militante. Non in senso partitico, ma in senso più propriamente politico, mettendo le sue competenze tecniche al servizio di una visione e di un progetto culturale.
I progetti
Ho iniziato da “militante culturale” a organizzare eventi – per la precisione nei primi anni Ottanta, con rassegne teatrali come “Sussurri e grida” con l’Out Off. Ho proseguito nei decenni successivi, mentre lavoravo per diverse case editrici e collaboravo a diversi progetti giornalistici. Posso ricordare progetti come “Subway Letteratura” (1998), “Maratona di Milano” (con Antonio Calbi, 2000-2001), “Le Buone Pratiche del Teatro” (con Mimma Gallina, dal 2004), “BookCity Milano” (di cui curo il programma fin dalla nascita, nel 2012), “Bolzano29” (con Giulia Alonzo, dal 2019)… E poi premi come “Rete Critica” (con Massimo Marino, Annamaria Monteverdi e Andrea Porcheddu, dal 2012) e “Cinema & Arts” (con Alessio Nardin, dal 2022). Partendo da qualche nozione di programmazione, ho creato i siti ateatro.it (2001), lucaronconi.it (2012), trovafestival.it (2017), ideando e realizzando iniziative con le associazioni che li gestiscono: incontri, convegni, progetti di formazione, mostre…
Ho sempre cercato di accompagnare questo learning by doing, inevitabile in un mondo in rapidissima evoluzione, con la ricerca e la riflessione, in un campo di studi dove l’Italia era (ed è) in netto ritardo rispetto ad altri paesi. Però ho capito di essere un “organizzatore culturale” solo una quindicina di anni fa, quando hanno iniziato a chiamarmi per tenere lezioni nei master e nei corsi che erano nati nel frattempo. A un certo punto, ho persino messo in rime baciate questo filone della mia attività.
I libri
La mia progettualità è sempre stata accompagnata, oltre che dalla lettura di libri e articoli scientifici, dalla scrittura, in un costante processo di ricerca, con un obiettivo sia di documentazione (“fare memoria”) sia di formazione, per offrire alcuni strumenti ai più giovani. Cito in quest’ottica Il nuovo teatro in Italia (La casa Usher, 1998, che nasce da una mostra), I mestieri del libro (2008, filiazione di un’appendice alla Garzantina di letteratura), Le buone pratiche del teatro (con Mimma Gallina, 2014), Reinventare i luoghi della cultura contemporanea. Nuovi spazi, nuove creatività, nuove professioni, nuovi pubblici (a partire da un’edizione delle Buone Pratiche, con Cristina Carlini e Mimma Gallina, 2017), Dioniso e la nuvola. L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici (con Giulia Alonzo, 2017), In giro per festival (con Giulia Alonzo, giunto nel 2024 alla terza edizione). Parallelamente si è sviluppata la pratica pedagogica sui temi della progettazione e gestione degli eventi.
Rendere semplice la complessità
Se cerco elementi comuni, alcuni sono evidenti. Questi progetti non vanno a coprire bisogni già evidenti, già espressi, ma hanno come obiettivo il cambiamento. Il fulcro è in genere un fenomeno emergente o poco visibile (il nuovo teatro, la rete e l’impatto del digitale, le trasformazioni urbane, le nuove modalità di scrittura e lettura, gli spazi culturali ibridi, i festival…), di cui spesso non sono consapevoli nemmeno coloro che ne sono artefici e protagonisti. E’ un processo di conoscenza e creazione che al tempo stesso costruisce identità e apre alla creazione di reti. Il progetto rende dunque i suoi protagonisti visibili e li mette in dialogo con il resto della società, a volte aprendo all’advocacy, un aspetto di cui però non mi occupo.
La sfida? Condensare ogni volta la complessità in semplicità, in un dispositivo facilmente comunicabile e fruibile, nell’ottica di un allargamento e di una maggiore partecipazione del pubblico, di capacitazione, di pluralismo, di crescita democratica dei cittadini. Il presupposto implicito è che la cultura non sia elemento di distinzione oppure un oggetto di consumo: è uno strumento di trasformazione individuale e soprattutto collettiva, come ho cercato di spiegare in Cultura. Un patrimonio per la democrazia (2023).
Quello che non funziona
I principali problemi che ho rilevato, e con cui mi sono scontrato in questi anni, sono diversi. Il primo è la cronica scarsità e precarietà delle risorse destinate alla cultura nel nostro paese (con conseguente sfruttamento e autosfruttamento di lavoratori e volontari). Domina una visione antiquata della cultura, che viene considerata nel nostro paese un passatempo per ricchi (di qui la scarsa considerazione del lavoro nel settore), uno strumento di propaganda (o di indottrinamento ideologico, a partire da un malinteso sulla “egemonia culturale”), un momento di puro consumo o intrattenimento per le masse (“panem et circernses”), oppure un collante identitario (che sia nazionale, etnico o di classe, e comunque regressivo).
Poi c’è il pregiudizio che realizzare un evento sia facile: bastano quattro amici al bar che “tanto poi la gente viene” (e infatti gli eventi proliferano, anche se poi spesso muoiono). Non si pensa che servano competenze e idee (possibilmente aggiornate). Spesso – non sempre – gli interlocutori (nella pubblica amministrazione, nei giornali, nelle aziende…) mancano di competenza e di visione.
Un altro limite è la rigida divisione tra settori (i “silos”) e la scarsa propensione interdisciplinare dei cosiddetti esperti, con una rigida divisione tra amministrazioni, e la difficoltà a considerare la cultura un mondo unitario: una tendenza ancora più esasperata dalle rigide e ridicole divisioni disciplinari delle nostre università e dal corporativismo del settore, a cui si contrappone per esempio la visione di Fondazione Symbola con la ricerca sul settore culturale e creativo.
Scarsa è anche l’attenzione alla valutazione e allo studio d’impatto, che rischia di ridursi all’aspetto economico.
Amichettismo & Co.
Senza dimenticare la corsa alle poltrone, perché le direzioni e i consigli di amministrazione degli enti culturali pubblici sono gestiti in sostanza dalla politica: vengono spesso (ma non sempre) gestite in base all’affiliazione a correnti, cordate, mafiette e amichettismi, com’è inevitabile da sempre. In un paese conservatore, incline al compromesso e all’inciucio, i curricula hanno un peso relativo: possono spingere fino alla shortlist, ma non basta per vincere. Nelle fasi consociative hanno maggiori possibilità di carriera quelli che si dichiarano di sinistra ma si comportano come quelli di destra, e quelli di destra che usano il linguaggio della sinistra. Altrimenti l’appartenenza vale più della competenza.
Diffidate di chi dice “Io”
In sintesi, ho sempre cercato di sporcarmi le mani, di “fare” (ma anche di riflettere su quello che stavo facendo), di andare a vedere quello che succede nei territori, di incontrare le persone accostandosi a loro con curiosità e rispetto. Ho cercato di imparare dagli altri, rubando il più possibile. Ho scoperto che uno dei maggiori limiti di artisti, organizzatori e organizzazioni è l’autoreferenzialità, innamorarsi troppo della propria idea. Ho imparato che nessun progetto è eterno e che a volte è meglio farsi da parte, perché dopo un po’ è bene che certe strade si separino, per il bene del progetto e del curatore. Si tratta ogni volta di credere in un progetto condiviso per svilupparlo e proteggerne l’identità e gli obiettivi, senza usarlo per l’autopromozione: diffidate di chi dice spesso “Io”, come mi è stato chiesto di fare in questa occasione. E avete capito che l’indipendenza ha un prezzo.
Devi fare login per commentare
Accedi