Teatro
Augusto: il riso amaro di Alessandro Sciarroni
Per preparami alla visione di Augusto, l’ultimo spettacolo del Leone d’oro alla Biennale danza Alessandro Sciarroni, mi sono rivisto un paio di film di John Cassavetes. In particolare Faces e La sera della prima. Non so: da quel che avevo letto sullo spettacolo avevo pensato che fossero più calzanti, rispetto – ad esempio – al Clowns di Fellini, per quanto il titolo del lavoro, Augusto, rimandi proprio a una maschera classica del clown circense.
Ho avuto sempre difficoltà – lo ammetto – a capire il lavoro di questo anomalo e inventivo coreografo: un artista dalla cifra complessa e semplicissima al tempo stesso, curiosamente spiazzante rispetto ai modi e ai tempi della danza, ma anche ferocemente tagliente nella rappresentazione estenuante ed estenuata del reale. Mi sono trovato, a volte, a osservare quei suoi lavori stupito, divertito, un po’ infastidito e inebetito. Sciarroni è una felice anomalia (almeno per me), un fuori-squadra difficile da catalogare, sinceramente sorprendente e a volte detestabile: un incantatore disincantato che sa giocare con le reazioni del pubblico, che mantiene fede a una spettacolarizzazione concettuale sempre e comunque in grado di dividere, spaccare, far pensare. Non è cosa da poco, no? Dunque, ho cercato di prepararmi, ed ecco allora Cassavetes, perché Augusto è uno spettacolo impastato di risate: il tema, il filo conduttore, la spina dorsale annunciata è il riso. E nessuno o quasi, meglio del regista americano, ha saputo cogliere le mille sfumature grottesche, violente, aspre, perse, fragili, commoventi, umane insomma del ridere.
In quanti modi lo diciamo? Morire dal ridere, ridere a crepapelle, ridere da sganasciarsi, da scoppiare, alle lacrime, piegarsi dal ridere, ridere da matti, come scemi, risate folli, sbelicarsi, scompisciarsi… Il ridere è spesso se non sempre semanticamente legato a un dolore, a una morte, a una perdita di sé.
Ed è qua che indaga Sciarroni, ovviamente a modo suo. Al teatro Argentina, Augusto è programmato assieme nell’ambito di due rassegne (Grandi Pianure, diretta da un altro geniaccio della coreografia, Michele Di Stefano che ha portato la danza finalmente nel cartellone del teatro pubblico romano, e ShortTheatre la vivace manifestazione dedicata al contemporaneo di Fabrizio Arcuri e Francesca Corona): è insomma il festeggiamento di una ricerca artistica che diventa “ufficiale”, che mette d’accordo tutti, istituzioni e alternativi, nel riconoscimento del proprio valore.
Noi, seduti in platea, all’inizio ci sentiamo un po’ confusi: di cosa ridono quelli là sul palcoscenico? Ridono di noi? E che dovremmo fare? Ridiamo assieme? Di cosa? Si sa, la risata è contagiosa, ma anche lo sbadiglio lo è.
L’impressione che ho avuto, vedendo quei danzatori girare in tondo, in senso antiorario, per un lungo tempo, è quella dell’ora d’aria di un carcere. Sono là, con dei vestiti denim scolorito, jeans appena ritoccati che però tanto sanno di divise da prigione. Su un fondo bianco, camminano tutti allo stesso ritmo, si guardano, sorridono, girano, poi qualcuno inizia a ridere, poi gli altri. Risate insistite, persistenti, diverse, finte, vere, acute, stridule, profonde. Girano, accelerano, corrono, formano gruppi, escludono qualcuno che resta solo, lo ri-assorbono.
Coreograficamente non mi sembra nulla di più di esercizi nello spazio (la famosa “schiera” alla maniera in cui l’ha usata in scena, a volte, Emma Dante) ma poi pian piano qualcosa accade. Non c’è niente di particolarmente invasivo o innovativo, ma si diffonde un sentore di disagio. Ecco, forse è qui che si comincia davvero a “morir dal ridere”.
Come è chiaro, e forse prevedibile, quelle risate non sono solo uno sforzo, una difficoltà fisica da gestire (bravissimi tutti) ma sono anche una denuncia, una presa di posizione. Appare lampante così che non c’è niente da ridere. Adesso, in Italia, tra noi: non ci resta molto da ridere. E non solo per la situazione generale, politica e forse generazionale. Ma anche in una prospettiva più intima, individuale. Credo che tutti, nell’affollata platea dell’Argentina, si siano sentiti chiamati in causa.
Non ridiamo più: siamo semmai amareggiati, stanchi, incazzati, incarogniti, rancorosi. Noi li guardiamo muoversi sul palco, fino allo sfinimento, e capiamo che non stiamo più ridendo, da tempo immemore. Quel ridere ingenuo e felice, le belle risate infantili, le matte risate dell’amore: che fine hanno fatto? Perse, forse, come la gioventù, come la vita che sfugge tra le dita.
Poi i danzatori si accordano in movimenti e sequenze di gruppo: c’è sempre qualcuno che ritarda, che sporca, che cambia la sintonia, in uno spossamento condiviso e inequivocabile. C’è qualcuno che accenna appena, che non ce la fa più. Ci sono schiaffi aspri di un uomo a una donna – scena radicale, forte e amara, detestabile, che sicuramente scandalizzerà il movimento #metoo – ci sono grida che hanno il sapore farlocco di essere a vuoto. C’è un pianto a dirotto, poco credibile come alternativa tragica alla grottesca ferocia della risata. Ma in sostanza c’è un vuoto, che abbraccia tutto e tutti, che ci lascia persi, in platea, senza tante parole e qualche irrisolto, benefico dubbio.
Sostenuto da un manipolo di produttori, a capofila Marche Teatro, Augusto è ben interpretato da nove performer (in alternanza): Massimiliano Balduzzi, Gianmaria Borzillo, Marta Ciappina, Jordan Deschampes, Pere Jou, Benjamin Kahn, Leon Maric, Francesco Marilungo, Cian Mc Conn, Roberta Racis, Matteo Ramponi.
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