Teatro
Aspra pedagogia a teatro con Milo Rau e Christiane Jatahy
Vorrei provare un esperimento un po’ azzardato, ossia mettere assieme, in un’unica riflessione, due spettacoli diversissimi, visti entrambi – merito alla direzione artistica di Fabrizio Arcuri – al festival Short Theatre di Roma appena concluso. Il primo è la tappa della Ecole des Maîtres, diretta dalla regista brasiliana Christiane Jatahy, dal titolo Cut, Frame and Border; il secondo è Five Easy Pieces dello svizzero Milo Rau.
Spettacoli diversi, ma esiti ugualmente entusiasmanti. Tento un avvicinamento tra i due perché sottendono un’ampia e strutturata riflessione sulla pedagogia, attraverso il teatro e non solo.
Christiane Jatahy, artista raffinatissima che abbiamo imparato a conoscere in Italia grazie alla Biennale Teatro, ha affrontato il percorso di alta formazione della Ecole Des Maîtres mantenendo fede al proprio stile e alle proprie intenzioni. L’Ecole, nella sua venticinquennale storia, è uno dei master europei più significativi in fatto di formazione teatrale: una rete di partner internazionali – per l’Italia il sempre vivace CSS di Udine – si è consorziato per offrire a giovani professionisti della scena una opportunità di studio e lavoro con maestri ogni anno diversi. Si sono alternati, alla tolda di comando, i migliori registi del mondo, con esiti ovviamente di volta in volta speciali e unici.
Con Cut, Frame and Border ci siamo trovati di fronte a una tappa (intermedia) di percorso, in cui emergeva però, in modo eclatante, la forte struttura di base sulla quale i bravi attori hanno innestato le proprie proposte improvvisative. Sul fondo del Teatro India una grande lavagna-parete riportava, scritti a gesso, le coordinate del lavoro, che si basava su una commistione di biografie vere e fittizie, su ricerche storiche e fatti di cronaca, su domande sistematiche alle quali ogni performer era chiamato a rispondere.
Dopo un lungo prologo esplicativo, in più lingue, sono emersi lentamente i protagonisti di queste storie: biografie, appunto che – apparentemente slegate l’una dall’altra – hanno trovato poi un filo conduttore nell’essere, tutte, di persone vittime di stragi, nuove o passate. Così la matassa si è dipanata evocando e svelando i fatti tragici del Bataclan di Parigi, mostrando l’intento compositivo: un ritratto intergenerazionale, internazionale, interculturale di generazioni spazzate via dalla follia omicida, religiosa o politica che sia. Il lavoro è ancora in crescita, ha altre tappe in Portogallo e Belgio, ma già appare come un potente meccanismo di narrazione del reale attraverso una finzione possibile.
E difatti la struttura dichiarata da Jatahy prevede alcuni “capitoli” interessanti, non solo per gli addetti ai lavori: Narrate, Dialogue, Caracterize, Describe, Internalize sono le password (se tradotte in italiano assumono sfumature leggermente diverse) fissate con scritte su delle sedie che diventavano altrettante stazioni per far evolvere o approfondire il racconto. L’aspetto intrigante dunque è la possibilità di affrontare i fatti di cronaca, anche violenti, per incanalarli in una teatralizzazione di grande naturalezza e di formidabile efficacia.
Bravissimi i giovani interpreti selezionati (sono 17: impossibile citarli tutti) che hanno aderito alla proposta di Jatahy con intelligenza e gusto, portando un contributo personale alla creazione davvero notevole: di fatto, il percorso cambia di volta in volta, e sta agli attori definire l’evoluzione e lo “scopo” del racconto (a Roma è stato il Bataclan, nella tappa precedente – mi dicono – era la strage di Nizza).
Diverso, si diceva, il lavoro di Milo Rau. Bellissimo e dolorosissimo. Five Easy Pieces è una costruzione complicata, anche da descrivere. Protagonisti sono un gruppo di bambini, dagli 8 ai 13 anni, guidati da un adulto attore. I bambini hanno scelto di fare teatro: il pubblico assiste a una prima fase di “provini” e autopresentazione, con l’adulto che fa domande, chiede di spiegare, di cantare e altro. L’adulto è ripreso in video e il primo piano gigante sovrasta i piccoli interpreti. Poi seguiamo le “prove” di un possibile film. E qui le cose si fanno scottanti, perché il film è un “docu-film”, ripreso in diretta, sulla vita e i crimini di Marc Dutroux, il pedofilo assassino belga le cui efferate gesta scossero profondamente l’opinione pubblica europea negli anni Ottanta.
Allora la questione è delicata assai. Uno dei bambini fa il padre di quello che fu chiamato il Mostro di Marcinelle: ricorda la vita in Congo, l’indipendenza della ex colonia belga, il tradimento della moglie, l’infanzia del bambino. Poi c’è l’indagine, con una “intervista” a un poliziotto; e ancora la struggente video-lettera che una delle rapite (la bambina di otto anni) manda ai genitori; i funerali di una delle vittime; la testimonianza dei genitori… Mentre sullo schermo, in fondo, vengono proiettate le sequenze interpretate da attori adulti, in scena i bambini danno voce e corpo alle stesse situazioni. Implacabilmente. Da togliere il fiato.
Il tutto, però, è continuamente spezzettato, demistificato, fatto slittare su piani diversi, ovvero quelli di una sistematica riflessione sull’arte attorale. Al punto che, mentre i “genitori” raccontavano la loro terribile esperienza, l’attore adulto, da dietro la telecamera, interrompe e chiede al bambino se riesce a piangere. Quello risponde di no, e l’altro gli dà uno stick (al mentolo o altro) per provocare la lacrima, ripresa subito con un primo piano strettissimo.
Mi sono dilungato nella descrizione, me ne rendo conto. Ma il teatro di Milo Rau va spiegato, perché allestisce dei dispositivi complessi in cui la rappresentazione del reale (ne parla bene anche Sergio Lo Gatto su Teatroecritica qui) è frutto di analisi e denuncia che inglobano gli strumenti del teatro, per riprodurre – con spostamenti millimetrici – fatti e situazioni concrete, con uno svelamento che è lucida memoria e aspra denuncia. I fatti, innanzi tutto, poi le eventuali interpretazioni sono affidate a ogni singolo spettatore.
Nel caso di Five Easy Pieces, allora, torna in mente il Walter Benjamin del Manifesto per un teatro proletario dei bambini, del 1928, laddove dichiarava «le rappresentazioni del teatro di bambini devono agire sugli adulti come una istanza autenticamente morale. Non vi è spazio per un pubblico in posizione di superiorità rispetto al teatro dei bambini. Chi non è ancora completamente instupidito forse si vergognerà». Ecco: noi spettatori, là, a sentire dei bambini parlare di pedofilia ci siamo vergognati. Lentamente, dolcemente, Milo Rau ci ha massacrato. E, con fare brechtiano, ha imposto i canoni e i criteri della rappresentazione, della finzione teatrale, dando allo spettacolo un tono non tanto da “patetica emotività”, quanto da micidiale presa di coscienza.
Fino all’ulteriore scarto del finale, quando una decenne spiega, con candore antiretorico e finalmente deideologizzato, il pasoliniano Cosa sono le nuvole. La bellezza, alla fine, è avere la fortuna di guardarle, le nuvole. Avere la libertà di vedere il cielo.
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