Teatro
Ascoltare Primo Levi ancora e di nuovo
C’eravamo sbagliati. Pensavamo che certe cose potessimo darle per acquisite. Che non ci fosse bisogno di tornarci su. Che il fascismo fosse stato sconfitto e sepolto a testa in giù. Che il razzismo fosse debellato; che una frontiera aperta fosse più bella di una chiusa; che l’accoglienza premiasse più del rifiuto. Che la parità dei sessi fosse conclamata e che la libertà della sessualità fosse serenamente raggiunta. Che l’antisemitismo fosse un brutale crimine del passato.
Insomma, “noi credevamo” che la libertà, l’uguaglianza, la tolleranza, l’ascolto, il pacifismo, la solidarietà, l’umanità fossero beni conquistati. Con lotte, fatica, dolore, morte, ma conquistati. E invece, evidentemente, ci siamo sbagliati. Tornano sempre fuori, i fascisti, razzisti, sessisti, violenti. Tornano fuori i pavidi e gli opportunisti a tratteggiare ipotesi, narrazioni, prese di posizione, teorizzazioni, per giustificare tutto e il contrario di tutto. Addirittura abbiamo i nazisti di Sovicille, nel Senese (quasi come i nazisti dell’Illinois): impiegati di banca che nel tempo libero si travestono da SS e inneggiano al Fuhrer.
Di fronte a tutto ciò, cosa diciamo? Che abbiamo perso? Forse. Ma non siamo rassegnati. Men che mai in teatro. Continuiamo a dire, a scrivere, a fare quel che possiamo fare. Minoranza, probabilmente – ma poi nemmeno tale, basti contare le sardine strette nelle piazze di questi giorni – che cerca di ribaltare la rassegnazione, di scantonare dal pessimismo, di non accettare fatalmente la distopia e continua a sognare, e magari realizzare, utopie.
Allora ha senso, verrebbe da dire purtroppo ha senso, tornare ancora e sempre all’opera di Primo Levi. Ha senso mettere in scena Se questo è un uomo come ha fatto magistralmente Valter Malosti, affrontando il romanzo con rara e umanissima consapevolezza. Così come ha fatto bene, ad esempio, Massimo Popolizio, lavorando con un compattissimo e potente gruppo di attori dell’Accademia “Silvio d’Amico” all’allestimento, efficace, corale, di uno Studio su il sistema periodico, nel teatrino di Via Vittoria, a Roma. O come hanno fatto il gruppo Fanny e Alexander ad affrontare il “personaggio” Levi, in un racconto-ritratto di grande fedeltà (nei cento anni dalla nascita dello scrittore sono molti gli omaggi e gli attraversamenti, anche teatrali della sua opera)
Con Valter Malosti, dunque, troviamo il Romanzo assoluto, il racconto dei racconti – per dirla con Basile – che scandaglia ed evoca tutto il dicibile dell’indicibile. Il regista e attore ha scelto di dare voce – quasi un “dire”, il suo – al testo: riducendolo, certo, eppure mantenendo integro (nella “condensazione” fatta assieme a Domenico Scarpa) il senso forte, radicale e assoluto, dell’opera. Perché la parola è, oggi più che mai, l’essenza del libro.
Si presenta in scena, un cappotto e un completo a dare dignità alla figura, e una valigia in mano: segno di quel viaggio da cui pochi faranno ritorno. Una scena scabra e assoluta, astratta eppure concretissima – nel bel disegno di Margherita Palli – magistralmente illuminata da Cesare Accetta, è lo spazio in cui diventa centrale la figura umana, l’uomo, ovvero colui che parla, che può e deve parlare.
Malosti si lancia nel flusso di ricordi che si fanno parole, attraversandoli in una tensione unica: è una lingua alta, la sua, senza scadimenti né commiserazioni. L’azione è tutta nel parlare, centrale, nodale, immobile nella sua continua mobilità. Si assume l’onere (e senza dubbio l’onore) di dare voce a. A chi? A Levi? Al Personaggio? Al Testimone? Non saprei dire ora: forse a tutti e forse a nessuno.
Dà voce al testo, in una scelta che è civile, netta, senza intermediazioni. Ci sono due figure che appaiono, evocando e incarnando l’umanità: fantasmi, corpi caduchi, emblemi allusivi di quel che è stato. Antonio Bertusi e Camilla Sandri, anime mute, sono giacomettiane figure che scaturiscono dall’ombra, dal passato, dalla Storia.
Ma al di là di queste apparizioni subitanee è dunque solo la parola – ossia il ricordo – a essere viva e presente. Senza alcuna retorica o infingimenti, senza ammiccamenti o enfasi (per carità!) ma con semplice consapevolezza di farsi portavoce, Malosti si impossessa del centro della scena, e non lo lascia perché è lì che deve stare. Insistendo, ancora e sempre, nel racconto. Un racconto che si fa anche canto, tre madrigali di Carlo Boccadoro, nel progetto di Gup Alcaro, e che pure snocciola verità e barbarie di quel che è stato e che pensavamo non sarebbe stato più.
Eppure l’eterno ritorno dell’orrore deve rendere consapevoli: nei Gulag come in Bosnia, in Rwanda come in Libia o a Guantanamo, ovunque la dignità dell’uomo è stata ed è calpestata. Vedete, a scrivere, a recensire questo spettacolo si rischia di far retorica: ma il pregio assoluto di Se questo è un uomo, nella messa in scena di Malosti è proprio la totale assenza di retorica.
Prodotto dalla Fondazione TPE con Teatro Stabile di Torino e Teatro di Roma, questo lavoro ha in sé l’essenzialità di una necessità antica e attualissima, che è non solo il pedante dovere della memoria, ma il ritrovare freschezza, senso, verità in parole del passato che sanno parlare dell’oggi e a chiunque. Ci dobbiamo aggrappare a quel testo, a quel racconto, leggerlo criticamente e lucidamente, ancora e di nuovo, per dire finalmente l’indicibile. Al teatro Argentina sono stati tanti gli applausi.
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