Teatro

Ascanio Celestini e la parabola di Laika

12 Novembre 2015

Che il programma del Romaeuropa Festival 2015 fosse bello ce n’eravamo accorti subito. Ma nell’ultima settimana il Ref ha piazzato due colpacci di gran valore. Due spettacoli diversissimi, entrambi di raffinata qualità: il primo è il contrastato e discusso, ma non per questo meno affascinante, Schwanengesang D744, ovvero l’incontro di Romeo Castellucci con Schubert; il secondo è Laika, di Ascanio Celestini.

E inizio proprio da quest’ultimo, rinviando il Canto del cigno schubertiano a una prossima analisi, perché il lavoro è ancora in scena al Teatro Vascello e magari uno dei miei quaranta lettori – leggendo queste note – sarà invogliato a andare.

Allora: Laika è bellissimo. È struggente, strampalato, arruffato, indignato, divertente, commovente. È uno spettacolo nato assieme al film Viva la sposa (chi l’ha visto? Forse è ancora in qualche sala: vale la pena) e come quello racconta un mondo di emarginati, di sbandati, anime strane – buone ma non candide – di una periferia umana oltre che geografica. Accompagnato in scena dal fisarmonicista Gianluca Casadei, Celestini racconta, dà voce a quel mondo. C’è una figura di narratore principale – un finto cieco alcolizzato, forse profeta forse matto – che parla con un Pietro che ha la voce bambina di Alba Rohwacher (registrata). Lui evoca tutti gli altri, quasi fossero protagonisti di altrettante parabole, semi di un rosario da snocciolare giorno dopo giorno. Parla di Dio e di Stephen Hawking, in un’esilarante digressione sulla permalosità del Divino; poi racconta di una vecchia non proprio credente; e ancora di una mignotta che voleva farsi suora, di un barbone nero; della cagnetta Laika lanciata nello spazio; dei pensieri di un facchino, dei turni di lavoro, della polizia che carica, di dove inizia il mare…

Ascanio Celestini, foto di Piero Tauro
Ascanio Celestini, foto di Piero Tauro

Non c’è una trama me le mille trame di un tessuto, fili che compongono un affresco amaro, desolato, struggente nella povertà e nella semplicità. Lo spazio scenico è delimitato da oggetti quotidiani: lampadine ikea, attaccate a prolunghe di casa, un siparietto e dietro cassette di plastica, di quelle per le bottiglie, affastellate una sull’altra. In questa dimensione spiccia, Celestini ha la grazia infinita di dar voce al mondo degli Altri, quelli rimasti fuori, quelli che raramente vengono ascoltati. Lo fa fregandosene di eventuali luoghi comuni o di immagini abusate: perché tutto, prima o poi, acquista senso. Anche le storie consunte – che proprio perché tali non ascoltiamo più – ritrovano valore e calore.

Ecco, nel lungo, ostinato, coraggioso percorso creativo di Ascanio Celestini, Laika segna uno scarto, un passo verso la consapevolezza.

Intanto lui, in scena, non è più il folletto sapiente e travolgente, non è il fabulatore furbetto che incanta. Qui abbiamo davanti un uomo, anche sofferente, acciaccato. Un Gesù “santo bevitore”, sempre che sia Gesù, sicuramente è un povero cristo: uno che si diverte pure alle disgrazie degli altri, ma che le sa osservare. È un uomo che ha conosciuto la vita, che ha capito la sofferenza propria e altrui. Poi ci sono gli spettri, i personaggi evocati: quella ciurmaglia, quella marmaglia che è il presepe in cui si colloca il racconto. Sono forse sfaccettature della stessa fantasia, di un’unica visione del mondo che – per quanto amara – non si rassegna alla disillusione. E infatti il miracolo avviene, alla fine. Un miracolo laico, laicissimo, di una semplicità sconfortante, imbarazzante per la sua evidente possibilità: accade che, di notte, mentre la polizia sgombera il picchetto degli operai e rastrella la strada, un cieco, una vecchia e una matta scendono in strada per difendere un barbone nero. Eccolo l’evento straordianario: è la partecipazione, è l’indignazione, è l’opporsi alla violenza perpetrata da tutte le parti. In nome di una dignità, di fratellanze antiche, più forti del diritto, della legge, della fantomatica “sicurezza” da tutti invocata: un gesto d’amore, di cui forse saremmo ancora capaci.

Nel narrare la sua particolarissima visione di Gesù, Celestini si colloca nel novero di una tradizione popolare che vede nelle “vite dei santi” infiniti spunti per storie anche divertenti, spesso didattiche o simboliche: da San Francesco-giullare fino al Bonifacio VIII di Dario Fo, in tanti hanno fatto tesoro di quelle leggende. Il tema, peraltro, è caro a Celestini, ed era presente già in spettacoli ormai storici, come Vita, morte e Miracoli o La fine del mondo, in cui la santità si intrecciava e si dipanava nella figura del matto o dello scemo. Con Laika, però, la prospettiva sembra interiorizzarsi e dunque radicalizzarsi, incarnandosi nell’ibrido “attore-ubriacone-santo” che – senza alcuna prosopopea – si fa cantore degli ultimi. Ben sapendo che nessuno, lui per primo, si salverà. Vi è blasfemia? Il pensiero, anche con accenti sferzanti, è costantemente al Dio che, troppo assente, tollera l’intollerabile della vita. In questo carnaio, in questa macelleria (sociale o meno), non bastano il mare o una bottiglia di sambuca. Si tratta di capire, allora, se scendere in strada o meno; se farli i nostri piccoli miracoli quotidiani, i salti mortali della vita. Oppure, come fa Dio, lassù, restare a guardare.

 

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