Teatro
Arturo Cirillo danza Molière
«Scaramouche non parla, ma dice tante cose!», pare abbia detto queste parole, Molière, vedendo in scena il celebre Zanni Tiberio Fiorilli, in arte Scaramouche.
Guardava, e ne studiava, la comunicazione corporea, quel codice fisico caro ai Comici dell’Arte, che Molière avrebbe poi adattato agilmente alla sua scrittura. Ed è così per Arturo Cirillo, ormai uno dei più acuti e sensibili interpreti del genio francese: prende Molière, lo porta a sé, ne sviscera temi rinfrescandone l’attualità. E soprattutto lo agisce, lo danza, ne fa una coreografia tutta teatrale.
Ecco allora che La scuola delle mogli diventa un nuovo capitolo di una incessante ricerca del regista e attore napoletano, un nuovo Molière, fresco come una rosa, pungente come una rosa, fugace e bello come una rosa.
Ma c’è in questo spettacolo, la conferma di una tendenza in atto da tempo – o forse da sempre – nel percorso di Cirillo, ossia quella dello scavo nei meandri contorti dei rapporti familiari e di coppia. Dopo la “trilogia americana”, così cupa e sordida nei suoi temi e personaggi, il ritorno a Molière potrebbe suonare come una riconquistata messa a norma, come un recuperare timbri, stili, ambienti più consoni.
E invece mi pare che qui emerga, con ancora più forza, quel che Arturo Cirillo sa trarre dalle pagine di Molière. Anche in una farsa certo “leggera” come è La scuola delle mogli, Cirillo fa sgorgare, infatti, un nero, un cupo che ha le note di un sorriso amaro, del ridere nel pianto. L’amarezza consapevole di chi ha saputo le fragilità e i dolori, di chi conosce la solitudine e la perdita: Molière raccontava con struggente empatie le piccolezze di ogni giorno, le nevrosi, le paure, le ossessioni di tutti e ciascuno. È proprio come il non-detto di Scaramouche: il silenzio indicativo, pesante di esperienza e di dolore.
Allora, nella vicenda del vecchio signor Arnolfo, nella sua contorta illusione di “coltivarsi” una moglie su misura, risuona tutta la disperata paura di morire, di restar soli, di perdere anche quel niente che si può comprare con il capitale. Non ha speranze Arnolfo, ma si ostina, si dispera, fa strategie grottesche e orribili pur di coronare il suo piano.
La storia prende, naturalmente, un’altra piega: ben prima del “metoo”, Molière – peraltro oggi sarebbe stato ben messo sulla graticola per le sue relazioni – racconta la libera scelta della donna. E lo fa da par suo, con intelligenza e senza troppi proclami: mostrando semplicemente la naturale verità. Nonostante non abbia potuto formarsi, ma anzi è cresciuta quasi prigioniera, la giovane Agnese sa bene il fatto suo.
Al personaggio Valentina Picello dà sapientemente una carica di ingenua forza rivoluzionaria. La semplicità (apparente) della fanciulla si riverbera nella recitazione argutamente “incantata” della brava attrice, che spalleggia il gioco di Cirillo con grande verve. A scombinare i piani ottusi di Arnolfo, si sa, è il solito “riccetto” pieno di gioventù e di vita: bravissimo, qui, Giacomo Vigentini, vivacissimo e trascinante. A completare il compatto cast, le ottime presenze del solido Rosario Giglio, in doppio ruolo, e di Marta Pizzigallo, sorniona e arguta serva di Arnolfo.
Ancora una volta Arturo Cirillo colloca le sue storie in bilico tra la realtà e l’infinito: la bellissima e funzionale scena girevole di Dario Gessati, i costumi fantasmagorici di Gianluca Falaschi, le luci suadenti di Camilla Piccioni e le musiche di Francesco De Melis (con quel motivetto finale che ricorda spettacoli passati) sono un teatrino da Commedia dell’Arte oppure, come sono più propenso a credere, uno scenario da umana, umanissima tragedia.
Ma con la sempreverde traduzione di Cesare Garboli, i meccanismi della farsa funzionano ancora splendidamente: si ride tanto, per questa Scuola delle mogli ed è un piacere seguire la perfezione dei ritmi, delle situazioni, degli equilibri, delle tecniche attorali. Ho visto lo spettacolo, prodotto da Marche Teatro e già ottimamente accolto dalla critica, in un affollato Teatro Mercadante, a Napoli: Cirillo è entrato nel cuore dei napoletani che ripagano tutta la compagnia con calorosi applausi.
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