Teatro
Al tempo del virus, Arlecchino finisce con il carnevale
«Deboto xè finìo Carneval» dice Lucietta in apertura de I Rusteghi, di Carlo Goldoni. E mai battuta fu tanto profetica. In questo clima da Cassandra Crossing, in questa caccia all’untore detto paziente zero, in questa isteria immotivata (e fomentata) il carnevale si spegne mestamente. E con lui si chiudono i lumi dei teatri, uno a uno, proprio come nella Venezia di Goldoni. Arriva la quaresima, che in questo 2020 è piuttosto una quarantena: chiudono i teatri, si sospendono gli spettacoli, si sciolgono le compagnie.
È giusto? A me pare una follia, ma tant’è: Oliver Cromwell sarebbe orgoglioso – ma erano altri tempi: figuriamoci che hanno riesumato la salma per condannarla a morte.
Eppure, in questa primavera anomala, si respira già l’aria (mefitica) del Decamerone: ci riuniremo tutti segretamente per portare avanti il teatro?
Comunque, prima della precipitosa decisione, in attesa dell’effetto a catena per cui dopo i teatri del nord rischiano di chiudere anche quelli del centro-sud, ho fatto in tempo a vedere l’Arlecchino servitore di due padroni, di Goldoni, nella nitida regia di Valerio Binasco.
Da tempo ormai, e mi piace ripeterlo, Binasco è diventato uno dei nostri grandi registi: il suo sguardo attento, curato, empatico, rigoroso volge al meglio qualsiasi testo scelga di portare in scena. Nella sua instancabile attività, può capitare magari che un lavoro sia forse meno calibrato, però se inquadriamo il suo percorso, la sua sistematica crescita professionale, non possiamo non festeggiare questa raggiunta maturità artistica.
E ne dà conferma anche con questo personalissimo Arlecchino, che vede protagonista un attore particolare come Natalino Balasso e un cast affiatatissimo di interpreti.
Binasco sa far lavorare gli interpreti al loro meglio, e riesce a rendere ancora più corale un’opera che è orchestrazione di situazioni e figure, affresco veloce ma profondo di nature umane, gioco impazzito di tessere che, messe assieme, danno un puzzle sorprendente quanto la più semplice e più viva delle vicende umane.
È noto: Giorgio Strehler, mettendo assieme quei canovacci goldoniani e affidando prima a Moretti poi a Soleri la straordinaria maschera, non solo si re-inventò la Commedia dell’Arte, ma diede un preciso taglio alla lettura del personaggio. Da allora, non sono mancati, in questi decenni, tante diverse edizioni e letture dell’Arlecchino. Nel solo Bicentenario goldoniano (92-93), qualcuno lo ricorderà, ne vedemmo delle belle: Arlecchini russi, croati, francesi, israeliani. Poi ci fu il “Mor Arlecchino” scritto da Marco Martinelli e messo in scena da Michele Sambin, che per primo associava la maschera all’immigrazione senegalese. E infine, in tempi più recenti, l’Arlecchino decostruito e destrutturato di Antonio Latella, interpretato da Roberto Latini.
E naturalmente non sono mancati artisti che hanno saputo cogliere il lato oscuro, nero, nevrotico di un Carlo Goldoni: dalla Bottega del Caffè riscritto da Fassbinder alla indimenticabile Trilogia della Villeggiatura di Massimo Castri, alla reinvenzione de La Bancarotta di Vitaliano Trevisan, c’è stato chi ha saputo scavare nelle pieghe di un autore, sempre nostro contemporaneo, che ha saputo cogliere al meglio le violenze e le tensioni di una borghesia già in crisi.
Con Binasco si arriva al coronamento consapevole di questa ultima linea di ricerca. E ci si arriva con il gusto amaro di una “commedia all’italiana”, ben più disillusa che ridanciana. Con la bella scena di Guido Fiorato, le musiche preziose di Arturo Annechino e le sempre magistrali luci di Pasquale Mari, lo spettacolo è un lavoro di grande respiro, che porta alla luce – come pus di una ferita – aspetti ben poco gradevoli di uno spaccato familiare. La farsa, se ne rimane qualche traccia, è critica sociale, è lotta di classe, è ritratto umano di questa piccola comunità buffonesca e approfittatrice.
Il patto, la parola data, l’impegno dei “grandi”, dei vecchi, dei padroni, degli uomini è sempre sulle spalle dei giovani, dei poveri, delle donne: ecco il risvolto della medaglia. C’è chi decide e chi patisce. O chi si deve arrabattare per tirare a campare. Arlecchino qua, timido, impacciato, goffamente furbo, vuole il salario certo, ma soprattutto vorrebbe dignità di essere umano, vorrebbe essere riconosciuto come portatore di sentimenti e forse valori, non solo come traballante macchina da lavoro.
E le gag – quelle celebri della busta stracciata, del pranzo da servire ai due padroni contemporaneamente, dei bauli con i vestiti – sono come raggelate, distillate, tanto da mostrare l’assurdità che le accompagna. Un clown al ralenti: divertente certo, ma che con candore, quasi con umiltà, vive il suo ruolo. E il finale, così sospeso, con Arlecchino che chiede perdono e gli altri, tutti gli altri che lentamente se ne distanziano, che gli voltano le spalle, che si raffreddano arriva come una coltellata. Durissimo.
Natalino Balasso, naturalmente senza la canonica maschera, se ne inventa però una con il viso, i capelli, il corpo, i gesti, il movimento. Sa farsi da parte, sa farsi piccolo, addirittura sparire in scena proprio come farebbe qualsiasi servitore: però si avverte la sua presenza, sappiamo che è il testimone degli sciagurati maneggi degli altri. Gli altri, che sono violenti padri-padrone (bravo Michele Di Mauro a far il suo Pantalone in dialettica con l’aspro Dottore di Fabrizio Conti), ambigui faccendieri (bravissima, novella Jonasonn, anche en travesti Elisabetta Mazzullo; nervoso e sprezzante il Florindo di GianMaria Martini); ottusi e surreali giovanotti (sempre bravo Denis Fasolo e Elena Gigliotti) o sottoproletari insinuanti (bene Carolina Leporatti e Ivan Zerbinati).
Resta il sentore di un Arlecchino virato al sentore di una grande disillusione: non c’è amore che tenga, né slanci né passioni. Semmai frustate. Chi è al potere, resta al potere. Gli altri si arrangino.
Prodotto dal Teatro Stabile di Torino, una delle importanti strutture nazionali costrette a chiudere i battenti delle sue sale per la proclamata ansia collettiva, lo spettacolo per ora si ferma. Arlecchino però, ne siamo certi, in continuerà a raccontare questo malsano paese, stordito di paure, rimbecillito di razzismi, infestato da idiozie ben più gravi del coronavirus.
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