Teatro

Arancia Meccanica, Ludovico Van e la Statale 16

14 Maggio 2016

Per un periodo della nostra vita abbiamo tutti ascoltato Ludovico Van e bevuto uno strano latte corretto (magari semplicemente con del whisky). Era la traduzione immediata, direi banale, delle suggestioni di Arancia Meccanica.

Scoprivamo il film di Stanley Kubrick da ragazzetti, un decennio dopo la prima uscita nelle sale, e ci mettevamo a ascoltare la Nona di Beethoven a tutto volume, sulla Statale 16 verso le discoteche riminesi, dove pensavamo di far effetto giocando ai duri.

Del film, ovviamente, non avevamo capito nulla, ma ci piaceva quella vertigine tenebrosa e strafottente, quella voglia di spaccar tutto dicendo parole insensate, di essere – insomma – diversi in un sistema già omologato. Il punk sfioriva già, i CCCP di lì a poco si sarebbero sciolti, e noi eravamo troppo provinciali per scassarci davvero. Così, pensando di fare i Drughi, più che altro eravamo Vitelloni in erba: chi virò nel lavoro, chi divenne un serio studente di giurisprudenza, chi entrò a odontoiatria per far soldi, e chi si perse nel teatro. E quel film, la storia cupa di Alex, interpretato dall’icona Malcom McDowell, e dei Drughi rimarrà come una fascinazione lontana, un pezzo di modernariato cui guardare con un misto di reverenza e nostalgia.

Allora sono andato con curiosità a vedere la versione teatrale del celebre romanzo di Burgess (da lui stesso a suo tempo adattato per la scena) nella regia di Gabriele Russo, con la produzione della Fondazione Teatro di Napoli.

Arancia Meccanica, foto Francesco Sgueglia
Arancia Meccanica, foto Francesco Sgueglia

L’inizio mi ha piuttosto spaesato: sulla scena succedevano tante cose, la musica era altissima, i quattro drughi si muovevano con fare felino e facevano smorfie eccessive. Ma tutto era come in un acquario, non passava il proscenio. Noi, in platea, piuttosto indifesi di fronte a un simile attacco, restavamo a guardare perplessi e silenziosi. Non c’era dialogo, non faceva paura, non c’erano appigli. I quattro della banda, si sa, parlano una lingua strana: ma qui era sottolineata da gesti volutamente ambigui, da pose eccessivamente grottesche, coperta da un rutilante tessuto sonoro (di Morgan) che strideva non poco.

Fosse continuato così, non avrei retto molto.

Invece poi, pian piano, la matassa si dipana, il ritmo si assesta – pur rimanendo teso, alto. La scena si svela meglio. Complice la bella visionarietà architettonica dello scenografo Roberto Crea, molto bravo, il mondo di Alex e dei Drughi si delinea nella sua futuribile storia.

Si sa, è difficile fare la fantascienza a teatro: ma è gustoso vedere “il futuro com’era”, ovvero confrontarsi con come l’umanità abbia immaginato, in passato, il proprio negativo avvenire. Oggi va di moda l’aggettivo distopico, che ben si adatta a Arancia Meccanica: e lo spettacolo dei Russo raggiunge il suo scopo. Complice l’avventura interpretativa degli attori: Daniele Russo, infaticabile nel ruolo protagonista, i bravi Sebastiano Gavazzo, Alessio Piazza, Alfredo Angelici, Paola Sambo, Bruno Tramice e l’ironica Martina Galletta, che qui non lesina la sua bellezza.

Arancia Meccanica, scene di Roberto Crea, foto di Francesco Sgueglia
Arancia Meccanica, scene di Roberto Crea, foto di Francesco Sgueglia

Arancia Meccanica, visto al teatro Eliseo di Roma, evoca dunque l’immaginario collettivo del film, spostandolo però altrove, rendendolo bellamente teatrale e dunque nuovo. A riportarlo alla luce oggi, il testo svela (almeno a me) un carattere più umano, meno generazionale e più individuale, più stancamente compassato: quella che era una vertigine di disgusto – nel celebre “trattamento” – diventa una metafora quasi quotidiana, viste le scemenze che ci appioppano in tv, molto più dure e aspre dei video propinati ad Alex. Ci siamo assuefatti a tutto: inneggiamo addirittura a fiction americane che abbiamo totalmente introiettato, facendone sistemi modellanti, e che in quanto a violenza valgono mille volte di più del lavaggio del cervello al suono di Ludovico Van. Così, a me sembrano attutite altre suggestioni, temi ormai sviscerati come il controllo e l’uso della violenza, o il disagio giovanile, o la tossicodipendenza o l’eterno maschilismo. Chissà, forse sono invecchiato io.

foto di Francesco Sgueglia
foto di Francesco Sgueglia

Però la storia continua ad essere affascinante ed inquietante quando parla del potere: quell’eterno potere misterioso e ambiguo, lontano e presentissimo, ricattatorio e micidiale, che tutto e tutti manipola e sfrutta, che distrugge con leggerezza persone e cose. L’apocalittica visione di Burgess-Kubrick non era poi così lontana dalla realtà: ma i potenti d’oggi sono solo più cialtroni, più sbrigativi, più cinici. Non usano colonne sonore di qualità per i loro misfatti.

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