Teatro
Antigone: l’assoluto, innaturale
Torna finalmente all’essenza, all’assoluto, al nodo irrisolto e irrisolvibile, l’Antigone che Massimiliano Civica ha presentato al Fabbricone di Prato con un manipolo straordinario di interpreti. Scava davvero l’origine misterica della tragedia, sfronda la vicenda da ogni super-interpretazione (da Hegel a Bertolt Brecht al Living a oggi) cogliendone finalmente la rinnovata forza di dialettica feroce, di montaggio per opposti, di scontro non partitico né di “genere”, ma paradossalmente tanto più politico in quanto profondamente, lucidamente, a-politico, ossia superiore a ogni forzata, contingente e faziosa lettura.
Nel suo abituale stile scarno ed essenziale, la regia di Civica sfila i personaggi dal “pathos” che hanno acquisito nel tempo: e allora, che so, non c’è la pur coraggiosa Karola Rackete, da queste parti, né le tante “antigoni” che di anno in anno si sono sentite chiamare come l’eroina sofoclea per il proprio impegno politico, sociale, culturale.
E non ci sono nemmeno i “tiranni” ormai abituali: né nazisti né brutali e violenti maschilisti, neppure i politici di turno. Non serve, non servono esemplificazioni per avvertire la grande e complessa visione che soggiace all’Antigone.
Non sto qui a riassumere la trama, ma penso sia opportuno sottolineare come Civica faccia risplendere Sofocle, dopo un lungo e raffinato lavoro di studio e traduzione (che compete felicemente con quella fatta stagioni fa da Massimo Cacciari), riportandolo proprio alla visione di scontro tra “funzioni” tragiche – ugualmente comprensibili nelle loro posizioni ma deprecabili poiché ostinati, incapaci di ascoltare. Così facendo svela, e risolve, alcuni aspetti nodali del testo.
A partire dalla ritrovata importanza della figura di Ismene, troppo spesso liquidata come marginale e pavida, addirittura bugiarda, figuretta di contorno: qua è una donna consapevole, coraggiosa, cui probabilmente si deve il primo veloce “seppellimento” del cadavere insepolto di Polinice.
Nondimeno, acquista peso la figura del corifeo, portavoce colto, saggio, maturo del popolo. Lo spettacolo fa poi della Guardia e di Emone due caratteri veri e vivi. Infine dà ad Antigone la contraddittorietà di una eroina da un lato insopportabile, arrogante nella sua nobiltà, nel suo essere “l’ultima principessa di Tebe”, ma capace di fronteggiare Creonte, il “Comandante” – così viene chiamato – su un livello che va ben al di là della retorica spiccia dell’amore o delle leggi non scritte. Una donna che si smarrisce per un istante, ma che non esita a raggiugere il suo “talamo” di morte. E Creonte, capo partigiano, con tanto di stella rossa, è infine un politico inizialmente accorto, democratico, legittimo nel suo ruolo e nella sua condanna, non un violento e ottuso tiranno.
Insomma, con una azione di scavo e pulizia nel testo, guardando alla origine della tragedia, si moltiplicano i piani narrativi, gli spunti di riflessione, i temi affrontati. E, andando controcorrente rispetto al “naturalismo cechoviano” (mi si consenta la grossolana definizione), impregnato di psicologismo, con cui anche la tragedia classica è spesso affrontata, Massimiliano Civica ne fa risaltare l’innaturalezza, la funzione – per l’appunto della tragedia classica – di porre in essere conflitti irrisolvibili per riflettere sulla Polis e sul genere umano.
Tutto diventa chiaro, essenziale e evidente: la tragedia è là per interrogarci, non per risponderci o indottrinarci.
Ecco dunque, in uno spazio vuoto sapientemente rischiarato dalle raffinate e soffuse luci di Gianni Staropoli, entrare i cinque attori. Le signore hanno vestiti eleganti, sono nobili. Gli uomini hanno abiti di battaglia: sono combattenti appena tornati dalla guerra. Il corifeo è in marsina, elegante, cerimoniale (i costumi sono di Daniela Salernitano). Entrano, prendono posto e dopo un attimo di tesa sospensione, seguito da un buio intenso, si illumina un ring di luci dentro il quale si consuma lo scontro.
Di lato, sulla sinistra, un fantoccio è il cadavere insepolto: è vestito con una divisa, diversa da quella di Creonte, ha stivaloni neri, potrebbe essere un fascista (devo dire che non mi è piaciuta molto la fattura di questo manichino, l’ho trovato troppo “posticcio”, è l’unica soluzione “facile” in uno spettacolo invece molto raffinato).
In questo impianto sono poi gli interpreti a dare profondità, nerbo, lucida e feroce forza alle parole. Seguono uno schema di entrate e uscite classico – dalla sinistra chi viene da fuori, dalla città ed entra nel Palazzo – e quando non sono in azione siedono sul fondo, visibili e presenti.
Subito, aspro, l’incontro tra le sorelle: Monica Piseddu e Monica Demuru sono le figlie di Edipo, potentissime, diversissime, affiatate, solidali, lontane, nemiche, sorelle. Già in questo primo dialogo si cova e si svela quel che sarà. Antigone aspra, devota ai suoi uomini (il padre, il fratello), Ismene più attendista, ma non per questo meno coraggiosa.
Piseddu, da par suo, sa essere nervosa, brusca, ironica, aggressiva, addirittura strafottente. L’Ismene di una ottima Demuru sembra più spaventata, tesa, commossa, prorompe umanità (e la ritroviamo, in seguito, con maschera a dar voce a Tiresia).
Quindi è lo scontro è armato di parole tra Creonte e Antigone: si adombra lo scontro di classe (i nobili contro la democrazia) e la dialettica giuridica, il diritto “divino” e quello “positivo”. Poi ancora gli annunci – in un romanesco dapprima stridente, poi sempre più necessario – del soldato di guardia; il litigio tra un Creonte sempre più convinto e al tempo stesso confuso e il giovane Emone; l’ingresso misterioso di Tiresia che non esiterà a maledire il tiranno.
Oscar De Summa è bravissimo nel connotare il suo Creonte con sottili mutamenti: dapprima convinto e democratico vincitore, Comandante rispettato e temuto; poi incredulo, ironicamente scettico, sordo di fronte ai tanti avvisi di sventura, e ancora disperato e perso, ma costretto a tenere quel potere, quel comando, che lo ha annientato.
Bravo, efficace, Francesco Rotelli, nel doppio ruolo di Emone e del soldato cinico e davvero intenso è un grande del nostro teatro, Marcello Sambati, che rende centrale il ruolo del corifeo: come muove le mani, come siede in ascolto, come si affianca ai protagonisti, come parla a noi seduti in platea rendendo ogni singolo spettatore partecipe delle infinite, irrisolte, aguzze domande poste dall’Antigone.
Questa tragedia, così netta, scagliata come una freccia, vola dall’inizio alla fine in una atmosfera sospesa: si scaglia poi, colpendo il bersaglio, nel cuore di una Polis ancora e sempre da costruire. La questione, più che mai, non è tanto per chi parteggiare – essere partigiani – e nemmeno parlarci solo tra noi (tra “noi teatranti”, ad esempio), dandoci ragione, tutti già convinti della stessa causa. Si tratta, invece, ora e sempre, di riflettere su quelle parole del corifeo, misteriose, oscure eppure tanto forti da farci tremare i polsi: “l’uomo è un miracolo che fa paura”. Ci aveva avvisato, Sofocle: sapremo ascoltarlo nell’era dell’Antropocene?
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