Teatro
Animali da bar: racconto trash e acuto del moderno dramma esistenziale
“Ho visto cani con più stile degli uomini,
Sebbene non molti cani abbiano stile.
I gatti ne hanno in abbondanza”.
(C. Bukowski)
Cos’è un bar se non un luogo di ritrovo, un posto in cui ciascuno porta se stesso al termine di una giornata lavorativa, si rilassa, scambia chiacchiere per lo più leggere tra amici?
Animali da bar è uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, drammaturgia di Gabriele Di Luca, regia di Alessandro Tedeschi, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti. Interpreti magistrali di personaggi forti e sfrontati sono: Federico Vanni, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Massimiliano Setti e Beatrice Schiros.
Questo bar di quartiere è un luogo dove ciascuno abbandonandosi all’alcool porta la brutta copia di sé, come uno dei personaggi ci terrà a dire. Si tratta di Swarovski, lo scrittore incaricato dal suo editore di scrivere un libro sulla grande guerra, nonché narratore della storia. La guerra di cui scrive, scopriremo infine, è quella farsa di vita che tutti i frequentatori del bar sono costretti a vivere.
Sono tutti dei disgraziati: Milo ha un’impresa di pompe funebri per animali di piccola taglia e spera che il nonno, voce fuoricampo di Alessandro Haber, proprietario del bar e misantropo che vive nascosto perché ha un cancro ai testicoli, muoia perché possa trasformare il bar in una vera azienda e guadagnare tanti soldi. Per lui spiritualità e marketing si identificano. Arriva a progettare urne in cui giace il corpo decomposto dell’animale defunto, decorate con gadget e telecamere a distanza grazie alle quali il padrone potrà ricordare e sorvegliare l’amato. C’è un bipolare che deruba le case dei morti, soprannominato Sciacallo. Anche i suoi sogni orrendi, hanno a che fare con la morte, sono la proiezione della sua voglia di vendetta nei confronti dei compagni di classe. I pochi momenti di euforia gli sono provocati dall’assunzione di farmaci, e solo allora la sua gamba zoppa non gli è da ostacolo nel correre lunghe distanze. C’è poi “colpo di frusta”, soprannome dovuto al fatto che porta un collare simbolo dei maltrattamenti subiti dalla moglie, alla sua inettitudine fa da contraltare il suo credo buddhista e il suo sogno di liberazione del Tibet dai Cinesi. C’è poi Mirka, un’ucraina che affitta il suo utero. Viene spesso offesa per la sua bruttezza. È al quinto mese di gravidanza e porta in grembo il figlio di “colpo di frusta”; è una donna disincantata, per lei l’amore e l’attaccamento al nascituro sono fatti non rilevanti, sono un mero affare.
Se le luci soffuse del bar suggeriscono un’atmosfera intima, Il linguaggio è dissacrante, l’ironia feroce, le riflessioni sono irriverenti. La parola squarcia la penombra provocando grande ilarità. La presenza di un orinatoio in scena trova corrispondenza verbale nei discorsi che enfatizzano la misura dell’attributo maschile. Sarà la saggezza dell’unica donna in scena, quella deputata a raccogliere le storie degli altri, a far notare che gli uomini si preoccupano di possedere tutto quanto sia di taglia superiore, auto compresa, per poi richiedere eccessi di cure per una semplice influenza.
Tutti i personaggi sono dei disgraziati che si adeguano alla logica del mercato, che cercano di trarre profitto dalle miserie altrui speculando tanto sulla vita quanto sulla morte; tutti, allo stesso tempo però, sono carnefici e vittime di se stessi. Mira ha un’infanzia disgraziata e ogni sua ruga potrebbe cantarla per lei se vi si poggiasse su una puntina di un giradischi; col suo sarcasmo Swarovski farà notare che la stessa Maria portava in grembo un figlio non suo, Mirka, perciò, non fa che ripetere quel miracolo. Di lei si invaghirà “colpo di frusta” quando vaneggia che il figlio che darà alla luce è il Dalai Lama. Il bancone del bar dietro al quale serve, ripete le forme sinuose del suo ventre sul quale poserà un vestito elegante l’unica sera in cui, accettando l’invito a cena dell’uomo a cui darà un figlio, finge di credere alla versione fantasiosa sul futuro nascituro.
I disgraziati che popolano il bar sono individui, ma al tempo stesso il prototipo degli ultimi brandelli di un occidente che va in frantumi e sa ormai esprimere solo rabbia, odio, frustrazione. Di fronte all’inutilità degli psicofarmaci, il soccorso a tutto ciò pare arrivi da un “oriente” portatore di generosità e purificazione calati nella pratica della compassione e della gentilezza.
Lo spettacolo, infatti, inizia con l’immagine di Mirka, donna forte e corpulenta, che ascolta “La bella e la bestia”, e che con alcune battute di spirito smorzerà la veemenza del personaggio di turno, citando “Il re leone” e “Il gobbo di Notre Dame”. Dietro la sua scorza di donna dura, c’è l’attitudine a volersi abbandonare al sogno.
In realtà l’intermittenza delle luci con l’apertura del sipario suggerisce questa duplice natura dei personaggi: la bella e la bestia che è in ciascuno di essi. Tutti, bianchi e neri, italiani e stranieri, sani e pazzi, credenti o meno, hanno un analogo bisogno di piacere, di essere amati: Milo dalla compagna, una donna nera da cui avrà dei figli, Gianluca, dai propri compagni che non ucciderà, ma inviterà a cena. Sedendo a capotavola verrà riconosciuta la sua posizione di primo, sebbene sempre ultimo nei banchi di scuola.
Tutti, nonostante lo squallore delle proprie vite, restano aggrappati tenacemente, come l’edera, a una speranza di redenzione. L’unico che si discosta da questo gruppo di illusi perdenti è Swaronski: la sua verità è scomoda, la pioggia che bagnerà il capo del bipolare dopo la cena non è latro che uno sputo di Dio. Moderno Bukowski il suo stile tagliente assurge ad arte di dare una risposta impietosa a tutto quanto accade in scena. Il suo nome suggerisce la pura trasparenza, la nuda verità.
Animali da bar è uno spettacolo che fa dell’eccesso dei personaggi il punto di equilibrio e simultaneamente di rottura, di profonda riflessione e grosse risate.
Riprendendo la battuta di uno dei personaggi, secondo cui anche la libertà è un prodotto culturale, mi arrogo la libertà di esortare uno degli attori a porre limite al proprio linguaggio quando si smette di calcare le scene e vestire i propri panni di persona. La cultura non ha limiti quando correttamente insegna non quando volgarmente esprime il proprio sdegno, o per dirla alla Bukowski: “Lo stile è una differenza, un modo di fare, un modo di esser fatto”.
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