Teatro
“Anima If”, tra teatro di figura e danza, la rivelazione di “Lupa”
Non si può certo dire che il nome non sia quello giusto. Anima. Quale altro potrebbe essere più idoneo per raccontare il mondo del teatro di figura, quello che fa sognare, innamorare e commuovere spettatori di ogni età? E’ fatto di maschere e pupazzi, marionette e burattini, ma anche di luci e ombre, burle e silenzi. E’ il mondo che ci cammina accanto, quello che ora per ora, giorno dopo giorno, ci fa ombra o ci precede. E’ teatro, dei più grandi. Parla al cuore e resta nella memoria a lungo. “Anima”, festival internazionale con una firma di prestigio come quella dei Mascareddas, maestri di un’arte antica eppure contemporanea. Al passo dei tempi e ben issata nello scorrere tumultuoso di questi tempi difficili. Quinta edizione, come sempre di pregiata fattura, tra le sale disadorne di uno spazio che dovrebbe essere rigurgitante di vita teatrale e culturale, e invece non lo è: quello dell’antica Manifattura Tabacchi nel centro della città di Cagliari. Dove c’erano le sigaraie sono rimasti solo i luoghi del lavoro. Ampie sale di officine e spazi destinati all’essicazione delle foglie del tabacco e alla confezione di sigari e sigarette, diventati, una volta ristrutturati, dei bei contenitori: quasi sempre vuoti. Qui ha trovato nido la compagnia dei burattinai fondata da Tonino Murru e Donatella Pau, mai veramente compresa in patria da scialbi governanti e operatori teatrali, eppure da oltre quaranta anni continua a ricercare e ordire strategie inventando momenti di incontro e spettacoli.
Non è il caso di sorprendersi per tanta indifferenza. Accade in tutta Italia che uomini di cultura e scienza, e pure critici di teatro, di questo mondo straordinario, cioè il teatro di figura, poco conoscono, magari derubricandolo per ignoranza a semplice ”teatro di pupazzi per bambini”. E’ invece arte per tutti o anche solo per adulti. “Anima If” (dove If sta per international festival), una settimana di laboratori, incontri, letture, proiezioni e spettacoli, tra fine ottobre e novembre, è uno di quei rari luoghi dove viene mostrato lo stato dell’arte della ricerca di un genere capace di inventarsi anche sfide singolari. Come quella prescelta questa edizione molto al femminile, che indagava sui rapporti con la danza. Tra i due linguaggi c’è tanta storia in comune come hanno svelato nella loro dimostrazione gli esperti burattinai della premiata compagnia Carlo Colla e figli, celebre istituzione e memoria di questa arte in quel di Milano che, rubando il titolo ad un’opera di Rosso San Secondo, nella lezione-spettacolo “Marionette che passione” offrono un viaggio-spettacolo dentro la storia e il cuore di questo genere intramontabile. Lo fanno naturalmente servendosi degli splendidi burattini mossi a filo e con raffinata arte da Franco Citterio, Pietro Corbella e Giovanni Schiavolin, iniziati giovanissimi a quest’arte proprio dai Colla. Dalla marionetta ai personaggi.
In leggeri e preziosi sipari l’excursus storico di questa compagnia: dalle origini del ballo ottocentesco al “coreodrammma” al ricco e sterminato repertorio novecentesco, i marionettisti aprono un grande libro dei ricordi per piccole piéce tratte da opere più grandi. Parallelamente scorre pedagogicamente il racconto dell’arte e la storia dei Colla. Dalla tradizione nata e maturata dentro la sala del Teatro San Gerolamo, lunga oltre cinquanta anni fino alle collaborazioni ultra ventennali con il Piccolo di Milano. E, soprattutto ci sono loro. Le marionette. Dal ballerino il cui volto richiama i lineamenti del grande Nureyev alle figure astratte, da Pinocchio alla bella fatina tutti i personaggi di un racconto popolare che ancora affascina. E’ invece l’unità quasi indissolubile, quella tra corpo dell’artista e il pupazzo che prende vita, grazie proprio ai movimenti della artista-danzatrice Amalia Franco in “Esercizi per scomparire”, uno spettacolo breve ma intenso che attrae per il continuo gioco di scambio e immagini proposte. L’artista prende in braccio il pupazzo gli fa compiere evoluzioni, l’accompagna in un vortice continuo di movimenti e azioni di danza che danno anima al personaggio fino a fondersi con lei in un appassionante gioco di riflessi tra vita e non vita, non privo di attimi di tensione tra due corpi diversi ed estranei. Ma solo fino ad un certo punto.
Il corpo a corpo, marionetta-marionettista torna in uno spettacolo avvolgente e magico di grande tradizione quale è quello della pregiata compagnia giapponese Yumehina Theatre Dondoro che in “Keshin” mette in scena una antica favola di significati profondi e ancestrali in cui si ritrova il mito del rapporto uomo-animale reso per quadri di una danza di magnetica bellezza. Protagonista Michika Iida, allieva del grande Hoichi Okamoto nelle vesti dello spirito della montagna travestito da volpe bianca, una parrucca fluente di capelli argentati e una maschera sul volto che, sceso dai monti incontra una donna. Con lei inizierà una conturbante ed erotica danza simboleggiante l’incontro tra l’uomo e la natura. Il contrasto prima, l’unione dei due corpi poi, stanno dentro una coreografia complessa fatta soprattutto di gesti e segnali rituali. La danza è costruita prevalentemente da attimi di sospensione, movimenti del corpo appena percettibili, stop and go, brevi scatti fotografici in cui l’atmosfera, nei fatti evocativa, sfida il tempo per divenire mito e leggenda.
L’ironia e il divertimento stanno insieme nella performance di un’ora del Teatro Matita, un flemmatico quanto empatico teatrante quale è il giovane sloveno Matija Solce. Un artista di solida formazione e assai versatile nell’utilizzare tutte le armi spettacolari del burattinaio, in grado di escogitare anche inedite soluzioni. Come nel suo spettacolo “Happy Bones” , cioè un bel mucchietto di ossa raccolte in diverse parti del mondo e ricoverate dentro un sacchetto che il teatrante si porta appresso nelle tournée. Ossa di diverse forme che possono suggerire i contorni di animali mostruosi protagonisti di racconti surreali narrati con una punta di umorismo nero. Ad aprire e chiudere questo atto unico, il delirio comico con un panda in pelouche, protagonista assieme al burattinaio di divertenti siparietti dove Solce interagisce con il pubblico. Magari dovrebbe prestare più attenzione alla drammaturgia e rimediare a qualche buco nei passaggi dalla “spalla” alla storia principale e viceversa.
Il capolavoro arriva all’improvviso nel week end del festival e porta il segno dei padroni di casa che allestiscono una superba versione di “Venti contrari”, piéce magnifica dove i Mascareddas hanno riversato la sapienza di fini teatranti, costruttori sopraffini di burattini e marionette in un esempio di teatro ad alta intensità emotiva e creativa. Un lavoro di intelligente radicalità in un allestimento a pianta centrale, dove, pupazzi e manipolatori a vista (le bravissime Donatella Pau e la giovane Claudia Dettori), occupano uno spazio ampio e quadrato con gli spettatori a fare da corona. L’opera non ha una “main history”, ma una margherita di plot convergenti, che talvolta si sovrappongono sfiorandosi. Un piccolo borgo, un quartiere in tempi di dopoguerra, fotografato nella sua quotidianeità fatta di di uomini e donne presi dalla strada, mostrati anche dentro le case, con le loro passioni segrete e clandestine, i deliri e le allucinazioni, come le speranze e le delusioni. Rotola sulla via un barattolo, emerge in lontananza il suono di un organetto: è un piccolo mondo fatto di miserie e sentimenti; una umanità narrata con grana fine per disegnare un affresco di ampio respiro popolare. Improvviso giunge un vento fortissimo, capace di far volare i tetti delle case e i pali delle strade, e in un attimo tutti e tutto sono sulla soglia della fine del mondo. La regia è di Karin Koller e le musiche originali di Tomasella Calvisi. “Venti contrari” è sicuramente uno degli esempi più interessanti e avanzati di un teatro di figura che cerca e non si sdraia sugli allori ma è in grado, come pochi, di reggere i confronti a livello internazionale.
Ad “Anima If” si è visto anche “725 giorni” di Silvia Bandini, spettacolo di cui si è già parlato in altre occasioni, che mette in scena il rapporto tra una danzatrice e una marionetta di legno. Tra luce e ombra prende vita un insolito dialogo tra i due. Molto interessante e brava anche l’artista. Forse necessiterebbe anche qui di un più accurato lavoro sulla drammaturgia. Dote che purtroppo difetta ai francesi de La Pendue che in “Tria Fata” con Estelle Charlier e Martin Kaspar Orkestar, una burattinaia e un one man band, mettono molta carne al fuoco, dai burattini alle marionette fino al gioco delle ombre per raccontare un dialogo con le Parche in cui vengono accumulati confusamente materiali su materiali. L’affaire diventa così intricato con il rischio di perdersi nel cercare di seguire il filo di una storia che da esile diventa complicata. Molto cervellotica: c’è il bisogno di sfrondare per acquisire ritmo giusto e comprensibilità.
La sorpresa arriva nell’ultima serata. Due artiste, la spagnola Vinka Delgado della compagnia La Vispera e Lucrezia Maimone di Oltrenotte uniscono i loro due “pezzi” da studio in una performance unica. C’è da dire che tra le due esiste una complicità fatta di storie di formazione comune, tra Catalogna e Italia, e un rapporto d’amicizia. Entrambe danzatrici, hanno nel loro Dna la passione per il teatro di figura. Delgado, già conosciuta come vincitrice del concorso internazionale di “Corto in danza”, allestito in Sardegna dall’associazione Tersicorea di Simonetta Pusceddu entra in scena con un grande mascherone che si muove in lungo e in largo come il vecchio Tiramolla o il lungo lombrico rubato ad “Alice nel Paese delle meraviglie”. Una sequenza ironica e divertente in cui il mascherone (che inizialmente sembrava la maschera che celava la testa della danzatrice) è spostato ai lati del corpo rivelando un corpo senza testa, o meglio un collo lunghissimo a fisarmonica.
Ma è forte l’emozione nello scoprire la capacità di invenzione, l’estro e il controllo del corpo di Lucrezia Maimone, in arte “Lupa”, alle prese con evoluzioni ardite e spettacolari. Autrice di una danza senza sbavature, la giovane artista aggiunge anche una innata presenza teatrale. Nella sua finestra espressiva riprende un pezzo da “Zoologia” -in corso di allestimento- in cui mostrerà un bestiario delle meraviglie orrido e fantastico. Vestita con un ampio abito da uomo si produce inizialmente in una danza fatta di armonica scioltezza, inanellando figure di spericolati movimenti aerei. Sguardi ambigui e mimica suggeriscono personaggi di storie improvvisate, parte di un teatro danzato che sfiora il cielo. Torna in scena _ a incastro con le evoluzioni della Delgado _ per mostrare un pupazzo altissimo dalla testa piccolissima, metà corpo, testa e un braccio, avvolto in un candido camicione. Compie evoluzioni e sberleffi facendo saltare via come un tappo di champagne la testa del pupazzo.
Ma è seduta su una sedia che “Lupa” improvvisa una danza ammaliante e ipnotica delle quattro braccia (due ovviamente fasulle e “cucite” sulla schiena” non si percepiscono). Due più due. Due che diventano tre, quattro e tornano due. L’artista compone intrecci impossibili eppure autentici. Un pezzo di straordinario impatto che trasforma la danzatrice e attrice nell’icona di Shiva, la divinità indù della distruzione, conosciuta anche con il nome di Natarajà, ossia il “Signore dei danzatori”. Danza, invenzione teatrale, arte circense, teatro di figura e acrobatica. Tutto questo si concentra nell’arte di “Lupa”, o Lucrezia Maimone, futura stella di sicuro successo, grazie anche ad “Anima If” che conferma la propensione ad essere incubatore di nuovi talenti e vetrina di un teatro di figura che ricerca il confronto con altri mondi e linguaggi.
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