Teatro
Angela Di Maso: il teatro della donna come specchio del mondo
Esce oggi una ristampa di Brutta, dramma in un atto di Angela Di Maso, per le edizioni Divergenze di Pavia. Con una mia postfazione, alla quale rimando per una più approfondita analisi del testo. La drammaturgia italiana, sembra, negli ultimi anni, cercare una regola, un denominatore comune che dagli atti e dalle vicende quotidiane, minime, di singoli e pochi individui, si proponga come specchio di un costume sociale diffuso. L’uso frequente del monologo, o di azioni con pochi personaggi – nel dramma Brutta i personaggi sono solo due – può nascere, è vero, da esigenze economiche, da spettacoli poco costosi nati per spazi ridotti, ma è anche un scelta che permette al drammaturgo di concentrare la tensione delle idee, prima che dell’azione. Le grandi tragedie del mondo, soprattutto oggi, nascono spesso da un episodio insignificante, da eventi marginali. La mancanza di manutenzione dei canali di scolo in zone dal terreno friabile può provocare l’alluvione in una città; una frase buttata lì, tra due individui, scatenare un diverbio dall’apparenza innocua, ma causare la rottura di un rapporto d’amore. Cosa comune, si dirà, in tutte le epoche, e tra le genti le più diverse. Quando in una coppia ci si lascia, da tutte e due le parti esplode il peggio di ciascuno. Ma allora vorrà dire che quel peggio già c’era, sopito, nella coscienza di entrambi, era stato semplicemente seppellito sotto una cappa di abitudini e di rimozioni, la voglia di stare insieme era sempre stata superiore al fastidio di comportamenti irritanti. Così come, nella vita di una città, la trascuratezza dei servizi può passare inosservata, o quasi, fino a che non provoca disastri. Ma Angela Di Maso scava più a fondo. Nel dialogo tra un uomo e una donna fa emergere, sotto il livello normale della conversazione, un astio accumulato che deflagra. Il dialogo ricorda un esame analogo delle tensioni di una coppia, soprattutto se coppia istituzionalizzata, come quella di un matrimonio, che possiamo già trovare magnificamente rappresentata perfino nel primo Goldoni. Ecco l’attacco della Putta onorata, commedia del 1744.
Camera del Marchese.
Il marchese Ottavio in veste da camera al tavolino scrivendo
e la marchesa Beatrice in abito di gala.
OTT. Sì signora, v’ho inteso; lasciatemi scrivere questa lettera.
BEAT. Questa sera vi è la conversazione in casa della Contessa.
OTT. Ho piacere. Amico carissimo. (scrivendo)
BEAT. Spero che verrete anche voi.
OTT. Non posso. Se non ho risposto alla vostra lettera…
BEAT. Ma a casa chi mi accompagnerà?
OTT. Manderò la gondola. Vi prego perdonarmi, perché…
BEAT. E volete ch’io torni a casa sola?
OTT. Fatevi accompagnare. Vi prego perdonarmi, perché gli affari miei…
BEAT. Ma da chi mi ho da far accompagnare?
OTT. Dal diavolo che vi porti. Gli affari miei me l’hanno impedito.
BEAT. Andate là, marito mio, siete una gran bestia.
OTT. Per altro non ho mancato di servirvi…
BEAT. Con voi non posso più vivere.
OTT. E voi crepate. Ho parlato al consaputo mercante…
BEAT. Bella creanza!
OTT. E mi ha assicurato, che quanto prima…
BEAT. Quanto prima me n’andrei da questa casa.
OTT. Oh volesse il cielo! Quanto prima vi manderà la stoffa…
BEAT. Questa è una commissione di qualche dama.
OTT. Sì, signora. (scrive)
BEAT. Me ne rallegro con lei.
OTT. Ed io con lei. (scrive)
BEAT. Fareste meglio a provvederla per me quella stoffa, che ne ho bisogno.
OTT. Cara signora marchesa, favorisca d’andarsene.
BEAT. Meritereste d’aver una moglie come dico io…
OTT. Peggio di voi non la troverei mai. (scrive)
BEAT. Poter del mondo! Che potete dire di me?
OTT. Andate andate, fatemi questo servizio.
BEAT. È nota la mia prudenza…
OTT. Gnora sì. (scrive)
BEAT. Si sa la mia delicatezza.
OTT. Gnora sì. (scrive)
BEAT. Son una donna d’onore.
OTT. Gnora sì. (scrive)
BEAT. Siete un pazzo.
OTT. Gnora… no. (scrive)
Qualcuno potrà obiettare che in Shakespeare abbiamo addirittura la codificazione di questi contrasti, Pene d’amor perdute, Sogno di una notte di mezza estate, Molto rumore per nulla, tra i titoli più famosi. Ma che cos’è che fa scattare l’astio, il fastidio, la rabbia? Nella commedia goldoniana il marchese si è incapricciato di una ragazza. Nel dramma di Di Maso il rapporto è più complesso, ma anche qui c’è un’altra donna. Non c’è, però, solo la stanchezza di un’abitudine, il libertinaggio maschile, che per molti uomini è un diritto, laddove diventa colpa se ad attuare il libertinaggio è una donna. Perfino negli epiteti, eroici per l’uomo, volgari e offensivi per la donna. La voglia di avventure (anche se il marito non se le lascia scappare e con le migliori amiche della moglie) non manca nemmeno all’uomo con cui la donna di questo dramma si confronta. Ma non sta lì il nodo del contrasto. Non sta forse nemmeno nell’opposizione tra una marito e una moglie. O non solo. C’è qualcosa di più inquietante, che sembra scattare sempre quando il rapporto è tra un uomo e una donna, come se la differenza di genere generasse differenza di attitudine alla vita. Soprattutto in Italia. Si pensi ai due maggiori drammaturghi italiani del Novecento: Pirandello e Puccini. La donna appare sempre come la sconfitta, l’oggetto del contendere, che però non ha diritto di scelta. O, se sceglie, fa sempre la scelta sbagliata. Non è forse un caso che le opere, i drammi, il cui esito, per la donna, sarebbe dovuto essere vincente, restano incompiuti: I giganti della montagna e Turandot. Anche per Di Maso, alla fine, la donna è sconfitta: ma per altri motivi. Non perché di fatto il suo ruolo sia sempre di una sottomessa, ma perché la sua condizione sociale la condanna a perdere. Una condizione di cui, certo, l’uomo è responsabile, ma è anche, a sua volta, anche lui la vittima, il condannato. Che potrebbe essere la lettura più corretta perfino dei drammi, apertamente misogini, di Strindberg. Come, invece, aveva capito, con grande lucidità, Ibsen. E più che nella famosa Casa di bambola – dramma per altro sublime, che veramente apre la riflessione moderna sul rapporto tra uomo e donna, ma non come rapporto individuale, bensì come rapporto che coinvolge l’intero assetto di una società – più che nel personaggio di Nora, insomma, in quello davvero più sconvolgente, più rivoluzionario, della Rebecca di Rosmersholm. Ma leggiamo l’attacco di Brutta.
Un uomo e una donna al tavolo di un ristorante. Vuoto. La donna smette di mangiare, si asciuga le labbra, incrocia le mani sono il mento e comincia a fissare l’uomo.
UOMO: Che c’è? (Guardandosi la camicia) Mi sono sporcato da qualche parte?
La donna non risponde. L’uomo riprende a mangiare. Anche lei riprende a mangiare, ma si ferma poco dopo per fissarlo di nuovo.
UOMO (senza alzare lo sguardo): Che ti ha detto poi il medico? Non avevi un appuntamento con lui, stamattina?
La donna lo guarda in silenzio.
Allora?
La donna lo guarda in silenzio.
Perché mi guardi?
DONNA: Sei brutto.
UOMO: Scusa?
DONNA: Sei brutto.
A parti rovesciate – l’aggressiva qui sembra la donna – assomiglia all’attacco della Putta onorata. Ma è una somiglianza illusoria. L’uomo avrà tutto il tempo di dimostrarsi assai più aggressivo della donna. E tuttavia il finale – che non è il caso di rivelare: è veramente un rovesciamento integrale di tutto ciò che si è venuto a sapere fino a quel punto – il finale rimette le tessere a posto, nel senso che non sono mai state a posto. E sta, a mio avviso, in questo rovesciamento dei valori, più che dei fatti, anche se a scatenare il rovesciamento è un fatto terribile, il senso della solitudine dei due personaggi, e dunque di noi tutti. Ma della donna più che dell’uomo, perché l’intesa di partenza, che avrebbe dovuto aprirle una vita di condivisione di valori e sentimenti, era una ingenua illusione, della donna più che dell’uomo, che anzi l’uomo non si è mai illuso, e ha anzi usato l’illusione della donna a proprio vantaggio, per crearsi uno spazio di autonomia, dalla quale escludere la donna. Un dato di natura, una differenza incolmabile, un’impossibile comunione, un’intesa solo apparente, questo, il matrimonio o, comunque, l’unione di un uomo e di una donna? La risposta, se c’è, se la deve dare lo spettatore. Soprattutto per chiedersi chi sia responsabile dell’affermazione con cui la donna chiude il dramma: “non volevo”. Ma poteva non volerlo? O proprio questo è la sua condizione di donna: subire – anche negli altri, in questo caso nel suo compagno – ciò che comunque non solo non si vuole subire, ma nemmeno causare. Viene fatto di pensare a Leopardi: a un potere “ascoso” che domina il mondo e che agisce solo a danno di tutti i viventi. Ma sarebbe illudersi che la causa della distorsione, del male, non sia in noi, come invece almeno in parte è. In quella differenza, appunto. Che invece di affrontarla come una opportunità la si è sempre usata come un pretesto di sopraffazione. Da parte dell’uomo, naturalmente. Ma per saperne di più, leggete il dramma, e magari anche le due postazioni, di Annachiara Monaco, l’una, e mia, l’altra.
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