Teatro

Ancora su Napoli e i laboratori

23 Febbraio 2017

Ha suscitato qualche reazione il mio post relativo alle dichiarazioni del direttore del Festival di Napoli, Ruggero Cappuccio. Addirittura sono stato oggetto di non richieste lezioni di giornalismo (“avresti dovuto”, “avresti potuto”) e di qualche insulto (giornalismo d’accatto, ad esempio).

Bene, vale la pena tornarci su, non tanto per chiarire le intenzioni di quell’articolo – riconfermo tutto quello che ho scritto – quanto per provare a ampliare la faccenda. Lungi da me, ovviamente, muovere dubbi sui “maestri”, e tanto meno su un gigante come Eimuntas Nekrosius: ci ha regalato momenti di teatro straordinari, commoventi e irripetibili, di grande bellezza. Ancora oggi, quando mi capita di far lezioni, uso video dei suoi celebri allestimenti Shakespeariani.

Ma, come è evidente, ci sono purtroppo questioni ancora aperte, che vanno affrontate, a prescindere da lui.

Temo che sia cambiato il tempo: non è più la stagione, in Italia, di certe iniziative di “formazione”. Molti attori e attrici, troppi attori e attrici di grandissimo livello, non riescono più a lavorare. La disoccupazione e la sotto-occupazione, nel settore, sono enormi. Per questo, un ennesimo – sono tanti, non possiamo negarlo – progetto di formazione-produzione è vissuto, da numerosi artisti, come uno “sfruttamento”.

Ormai l’unico modo per pensare di lavorare è fare questi “laboratori” gratuiti, che implicano comunque spese.

Pensiamo alla Biennale Teatro, cui pure ho collaborato in questi anni: ecco, mi sembra che la fine del mandato di Alex Rigola – che ha toccato vertici di qualità in questa prospettiva – segni simbolicamente la fine della stagione di formazione/lavoro. A Venezia, la concentrazione di tempo e di luogo, la commistione e contemporaneità di insegnamenti, faceva sì che il progetto formativo fosse intensivo e di alto livello, rivolgendosi chiaramente a attori iper-professionisti in cerca di approfondimento e specializzazione. Poi, se nascevano produzioni – è il caso, per fare un solo esempio, di Angelica Liddell – bene, altrimenti tutti serenamente se ne tornavano a casa con un bagaglio in più.

Ma anche quella pagina deve essere voltata, e servono, per citare Kostia, nuove forme.

Meglio, allora, sarebbe pensare a produzioni vere e proprie con i Maestri di turno, coinvolgendo i tanti attori disoccupati. Oppure declinare il cachet del Maestro coinvolto – Nekrosius o chi per lui – per produrre spettacoli di giovani artisti. Oppure pensare a borse di studio per i partecipanti, oppure ancora a una scuola (come è per l’encomiabile progetto di Santa Cristina creato da Luca Ronconi)  dove l’offerta pedagogica sia concreta e reale. Perché se il Festival di Napoli intende coinvolgere “apprendisti”, giovani neo diplomati, tendenzialmente venti giorni l’anno non bastano. Se invece vuole artisti strutturati, allora torniamo al caso iniziale: le prove dei professionisti vanno pagate sopratutto se sfociano in una produzione.

Viene poi da chiedersi, ormai, se serve creare altri centri di formazione per altri attori, in questo eccesso di scuole che stanno proliferando in tutta Italia, anche grazie alla riforma del Ministero.

Che tipo di scuole abbiamo? Quante ne abbiamo? Cosa e chi formano?

Ci saranno certo molti iscritti a Napoli, ne sono sicuro, ma temo si sia all’esaurimento di una modalità produttiva che, dagli inizi del Duemila, ha invaso l’Italia. La masterclass – da unica e irrepetibile che era – è diventata la quotidianità, un succedaneo del lavoro. Sulla crescita esponenziale di workshop e laboratori ho già scritto sin dal 2015 (qui), non è il caso di tornarci ora: ma dovremmo aprire un serio dibattito sulla pedagogia teatrale.

E ancora: forse sarebbe stato anche opportuno che, in un segno di rilancio del festival, si chiamassero semmai Maestri nuovi e diversi. Ma questa è un’opinione personalissima. E in quanto tale opinabile e discutibile.

Inoltre: un direttore di un festival importante come quello di Napoli, non può permettersi gaffes con i giornalisti. Non può far scrivere “attori” e “lavoro” quando si tratta di “allievi” e “formazione”. Vista la situazione generale, tanto più bisogna stare attenti. Soprattutto parlando con “Repubblica” e “Corriere della Sera” che riportano le stesse frasi: non sono giornali di serie B o blog internet come il mio, non si possono smentire tanto facilmente o correggere. E non è il caso di dare sempre la colpa ai giornalisti di aver frainteso, come è pratica di tanta politica italiana.

Infine, credo che la critica teatrale serva anche per porre domande, per sollevare dubbi, per aprire questioni.

Sono stato accusato di fare “giornalismo d’accatto”! Perché pensare che si sia sempre qualcosa “dietro” a domande e discussioni, che credo siano legittime? Perché parlare di scandalo?

Nessuno mi paga per fare questo mestiere. Non ho stipendio e non ho padroni: non ne faccio un vanto, è una banale realtà (vorrei tanto avere uno stipendio, figuriamoci!). Ma credo comunque sia inutile fare il “coro di consenso”: meglio, sempre e comunque, qualche sana domanda. Nell’orizzonte politico italiano, assistiamo attoniti al ritorno dello spettro della censura: chi non acconsente viene bollato, gli altri devono solo far il coro.

Nel teatro, per fortuna, non è così: e sono certo che Nekrosius e Cappuccio – e chi lavora con loro – siano d’accordo. Il teatro è democrazia discorsiva, è incontro e dialettica. Lasciamo, vi prego, spazio al dubbio e alle domande.

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