Teatro
Amore e morte al Corso
Roma è dal 1870 la nuova capitale del Regno d’Italia e nel 1872, sulla facciata del Palazzo Bracci – costruito alla fine del ‘500 da Jacobus Scala, notaio all’ “Officio del Tribunale delle Ripe” – al numero 18 di Via del Corso, viene affissa una lapide che ricorda come in una stanza al secondo piano vi soggiornasse, dal 30 ottobre 1786 al 1 marzo 1788, Johann Wolfgang Goethe.
Un disegno dell’amico pittore Johann Heinrich WilhelmTibschein ritrae il poeta di spalle affacciato alla finestra.
Nel 1997 l’appartamento diventa museo con il nome Casa di Goethe. Dorothee Hock, storica collaboratrice della Casa di Goethe, vi ha dedicato una breve ma interessantissima monografia: Via del Corso 18, Roma. Storia di un indirizzo, Casa di Goethe, 2013. Da questo libricino è tratta la storia dei due amanti suicidi, rielaborata in dialogo tra i due amanti, da Valerio Vicari e rappresentata al Teatro di Villa Torlonia il 29 marzo scorso. Max Schimdt, ispettore di polizia cinquantenne di Hannover, trasferito nell’Alsazia riconquistata dai tedeschi, s’innamora, ricambiato, della figlia di sua moglie, Luise. I due si trasferiscono a Roma nel 1875. Luise è incinta, ed è questo probabilmente il motivo della fuga, evitare lo scandalo. Ma dopo due mesi i due amanti si uccidono, spaventati dalle conseguenze della loro pazzia e dal fatto che stavano finendo i soldi ed era, però, difficile trovare un lavoro, senza denunciare la propria condizione.
Alessia Rabacchi interpreta Luise, Stefano Patti, Max. In piedi, davanti a un leggio, scandiscono in un dialogo delicato, ma spesso anche irritato, e colmo di angoscia, la loro avventura. Accanto a loro, tre musicisti, Andrea Feroci e Francesco Micozzi al pianoforte, e Marco Simonacci al violoncello, accompagnano la storia con trascrizioni dal Werther di Massenet. Leggendo il programma della serata, confesso di essere rimasto sorpreso e di nutrire perplessità per la scelta musicale. Invece, alla prova, si è rivelata una scelta giusta. A parte il fatto di ascoltare da un tenore strumentale, il violoncello, la celeberrima aria, che s’immagina ossianica, “Pourquoi me réveiller?” è un’emozione impagabile: piacerebbe ai tenori possedere una cosi morbida scala di timbri!
Ma il discorso è un altro. Il Werther di Massenet non ha, naturalmente, quasi più niente di goethiano, niente del male di vivere, del disadattamento ai cambiamenti politici e sociali del tempo, niente dell’angoscia esistenziale di estraneità dal mondo, una malattia, appunto, nella quale lo stesso Goethe si è sentito per un momento precipitare, e dalla quel si è salvato proprio raccontandola. Molti lo accusarono di avere scritto un romanzo che incitava i giovani al suicidio, e in effetti molti giovani si suicidarono, riconoscendosi nel giovane del romanzo. Ma Goethe fu chiaro: ho raccontato una malattia, se molti giovani ne sono malati, io che c’entro? Anche io stavo per esserne sopraffatto, me ne sono liberato guardandola in faccia, e raccontandola. Sono più o meno le parole che Goethe disse molti anni dopo a Eckermann. L’arte, per Goethe, come per Aristotele, conduce sempre alla catarsi. Ma per arrivarci, alla catarsi, al superamento della disperazione, la realtà che si vive va guardata in faccia, per quanto orribile possa essere: la conoscenza farà trovare la via di uscita. Werther non la trova. E questo racconta, in un romanzo bellissimo e modernissimo, Goethe.
Massenet fa tutt’altro. Immerge Werther nel sentimentalismo morboso della seconda metà e della fine del secolo XIX, lo stesso che proprio in Francia gli scrittori del naturalismo, Zola e Flaubert in testa, raccontavano con lucidità spietata, anche se tutt’altro che priva di commozione: Madame Bovary, di questo sentimentalismo è il ritratto inarrivabile. Lo stesso Flaubert se ne sentiva contagiato, se poté dire al processo in cui lo si accusava d’immoralismo: “Madame Bovary c’est moi” (Madame Bovary sono io). Fu assolto, perché appunto si comprese che il romanzo descriveva un fenomeno sociale, di cui non si poteva negare la realtà. Zola fu ancora più categorico: voi fatemi una società senza ingiustizie, senza bordelli, senza schiavi, e io scriverò romanzi felici. Il Werther di Massenet è dunque soprattutto un’infelice storia d’amore.
Come lo è quella dei due amanti tedeschi suicidatisi nella casa di Goethe nel 1875, patrigno e figliastra, Max e Luise. La loro storia si rispecchia nella musica di Massenet. Vengono in mente i versi di una poesia di Leopardi, intitolata appunto Amore e morte:
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
Gli attori, alla fine, la citano. Ma va detto, tuttavia, che in questa storia di amore e morte non c’è il respiro metafisico dei versi leopardiani. E non potrebbe esserci. Ma non è sbagliato ricordarli. Proprio per fare uscire la storia da un clima di superficiale sentimentalismo e inserirla in quella lunga catena di amori infelici che hanno spesso ispirati grandi capolavori della poesia, del teatro, del romanzo.
La lettura dei due attori era giustamente distaccata, scorrevole, priva di enfasi. La storia emergeva dai fatti, dalle emozioni espresse dai due interlocutori. Emozioni fortissime, che apparivano tanto più evidenti quanto più gli attori, bravissimi, evitano l’effusione gridata, oggi tanto di moda tra gli attori italiani. Alla discrezione della lettura corrispondeva l’intimità dell’interpretazione musicale, sinuosissima, liberissima, duttilissima. Il pubblico concedeva, alla fine, meritati applausi a tutti. Anche a Dorthée Hock, che ha suggerito l’argomento, a Valerio Vicari (foto sotto) che dialogato la storia, agli attori, ai musicisti.
Amore e morte al Corso, pièce teatrale con musica, su testo di Valerio Vicari. Da una storia vera, tratta dal libro Via del Corso 18. Storia di un indirizzo di Dorothee Hock. Un progetto a cura di Giorgia Aloisio e Dorothee Hock.
Teatro di Villa Torlonia. Per la stagione di Roma Tre Orchestra.
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