Teatro

Ammazziamo Arlecchino, ovvero il Teatro Comico di Roberto Latini

14 Marzo 2018

Uccidiamo il chiaro di luna, dicevano i Futuristi. Adesso è il momento, sembra dire Roberto Latini, di uccidere Arlecchino.

Far piazza pulita non tanto della maschera, tanto meno di chi la calza, ma di quel che rappresenta. Ebbene: pare proprio che lo spettacolo Il Teatro Comico, di Carlo Goldoni, in scena al Piccolo Teatro di Milano, sullo storico palco di via Rovello, sia un regolamento di conti.

Qualcosa che, se da un lato rende omaggio all’Arlecchino di Giorgio Strehler e di Feruccio Soleri o al memorabile Ariel di Giulia Lazzarini, al tempo stesso prende a pistolettate certo passato (o presente) teatrale.

Il prologo è già significativo: quella pistola che nelle prime repliche dello spettacolo appariva dal sipario ancora chiuso e puntava il pubblico, adesso invece – nel procedere delle repliche – si rivolta contro Arlecchino-Latini. E fa fuoco.

Arlecchino sanguinante, foto di Masiar Pasquali

Colpito al petto, al cuore, alla pancia, Arlecchino è fatto fuori. Subito. E solo dopo quel colpo, quella morte insanguinata, quell’uccisione rituale, può iniziare il teatro. Da quell’omicidio (o suicidio?), dalla morte si può ripartire. Non si tratta, a mio parere, di nostalgia per il “mondo dei comici” – come pure legittimamente qualche collega ha suggerito – semmai di dare nuovo senso alla “riforma” di Goldoni. Sul finire del Settecento era il passaggio dal “fuori”, dalla piazza, al dentro, all’interno casalingo, alla psicologismo e al reale. Ma ormai anche quella esigenza si è esaurita: siamo morti di troppa realtà, siamo sfiniti di mimesi accurate e intimismo neo-realista. Occorre altro: non più canovacci né posticce storie d’amore, tanto meno i lazzi, come quello celebre della mosca da mangiare, che qui diventa un “tormentone”, una ossessione fastidiosa più che un divertimento.

“Ve lo meritate Alberto Sordi!”, tuonava anni fa uno stizzito Nanni Moretti. Di fronte al teatro comico di Latini sembra allora sentire l’eco di quel monito. Ve lo meritate Arlecchino! L’obiettivo, dunque, non è certo Ferruccio Soleri, e ci mancherebbe altro! Quanto piuttosto potrebbero essere le “arlecchinate”, le mascherine, l’improvvisazione estemporanea, il pressapochismo di tanto teatro posticcio, quell’arraffona e italiana voglia di servire i padroni…

©Masiar Pasquali

Il Teatro comico di Carlo Goldoni è, come è noto, un testo-manifesto, una delle sedici commedie “nove” che l’Autore presentò in un solo anno, il 1750, per consolidare la sua riforma del teatro. Una riforma che – al pari di quella prima operata da Molière in Francia – ha cambiato il contesto, la storia teatrale e che Latini prende davvero sul serio, rilancia e rinnova. E poteva farlo solo là, dove è iniziato tutto, nel teatro simbolo d’Italia, ovvero al Piccolo: solo quel pubblico può cogliere immediatamente le citazioni e i rimandi, le provocazioni, l’ironia e gli esiti di questo spettacolo a dir poco sul filo della rivolta.

Il Teatro comico originale è, di suo, un’opera statica, a tratti addirittura rischia di esser pedante (laddove il capocomico spiega, motiva, illustra, si fa portavoce dello stesso Goldoni), forse per questo Il testo è poco visto sui palcoscenici italiani: ricordo solo una bella edizione diretta da Maurizio Scaparro con Valeria Moriconi. Eppure è un caposaldo in cui si svela come la “commedia all’improvviso” venisse rifiutata dai “comici”, in nome di una nuova professionalità. La commedia dell’arte ha meriti e valenze infinite, inutile ricordarlo, e per molti aspetti è stata reinventata, ricreata, proprio grazie al genio di Strehler con quel suo Arlecchino del 1947. Allora portare il Teatro comico sul palco di via Rovello equivale a un doppio giro della morte. Ha fatto bene il Piccolo ad assumersi questo rischio, e altrettanto bene ha fatto Roberto Latini, con la sua squadra invincibile di attori, a tentare un simile, coraggioso, gesto.

©Masiar Pasquali

Lo spettacolo è già stato ben recensito, (rimando, solo per citare una delle tante recensioni, all’articolata e appassionata di Massimo Marino), dunque mi permetto qualche considerazione a latere.

Se il lavoro discende diretto dall’Arlecchino strehleriano e, per scuola e motivazioni, da quel capolavoro di metà anni Novanta che fu Il ritorno di Scaramouche di Leo de Berardinis, come bene ricorda Gerardo Guccini sul quaderno di sala, mi piace collegare l’esito scenico anche a due altri spettacoli. Chiaro è il legame con il bello e discusso Servitore di due padroni di Antonio Latella, in cui Latini giocava proprio il ruolo di un Arlecchi-No, prodromo della negazione della maschera che qui torna, (ecco una cronaca di allora), e altrettanto se non più forte è il rimando all’Ubu Re, dello stesso Latini, in cui il regista e attore faceva i conti con gli stilemi e i codici di tanta “avanguardia” teatrale italiana (ne scrivevo qui).

©Masiar Pasquali

Allora mi pare di poter dire che questo Teatro comico si dispieghi come momentaneo, passeggero apice di un sistematico confronto con il passato: che sia, insomma, un duello importante, l’assedio che Latini e i suoi portano alle “forme” consolidate. Un attacco duro e doloroso, perché poi la poetica di Strehler (e non solo sua) è ancora là, bella, indimenticata, addirittura struggente.

Ma con quel moloch, con quel passato, con i Padri e i Nonni, c’è da confrontarsi: e il guanto di sfida è un’altra “forma”, ossia quelle “armi” che Latini ha già rodato. Presenza attorale, energia, decostruzioni, pop, metateatralità, evocazione poetico-lirica, strappi continui che tessono una partitura emozionale alta.

©Masiar Pasquali

Sulle musiche di Gianluca Misiti, e con le bellissime luci di Max Mugnai, lo spettacolo imbarca i comici in un piano basculante (la scena è di Marco Rossi, i bei costumi di Gianluca Sbicca) che è precarietà e parodia del palchetto dei Comici dell’Arte. Poi forgia e smembra una statua d’Arlecchino al pari di manichini da crash test, e mette tutto alla (dura) prova della realtà. Nel deserto del reale caro a Zizek il passato si è perso, rischia di restare come simulacro vuoto, come aneddotica o sterile riproposizione. Possibile sbarazzarsi della tradizione?

Roberto Latini invade la platea, scende giù, capocomico potente si aggira come bestia in gabbia, dà la battuta, lancia i suoi sodali nel gioco, li invita all’assalto. E su quel piano basculante ritroviamo la divina prima (e seconda) donna di Elena Bucci; il delicato e potente Marco Sgrosso – loro sì, incarnazione della storia di Leo de Berardinis, maschere vissute proprio da quello Scaramouche vieppiù citato – poi l’incredibile Marco Manchisi, con la sua storia di Pulcinella sulfureo ed evanescente nei panni del poeta Lelio. E ancora l’ottimo, terrigno Savino Paparella, l’elegante e comico Francesco Pennacchia, lo stralunato Marco Vergani, fino alla giovane e convincente Stella Piccioni, già allieva della scuola del Piccolo, che si fa presenza elegante e incisiva, Colombina punk e novella Ariel.

Sono tanti i segni, i richiami, le evocazioni: alcuni sorprendenti, preziosi, altri inutili (come l’ormai insopportabile monopattino) o opachi. C’è di tutto in questo spettacolo, manifesto sulfureo di modalità a venire, di teatralità ancora inesplorate, di viaggi in territori sconosciuti che già si intravedono. È una costruzione che si forma su frammenti e macerie non solo postmoderne e postdrammatiche, quanto di rovine e scorie degne del miglior Heiner Müller.

©Masiar Pasquali

Viene da chiedersi quanto e come un simile lavoro “multistrato”, così pieno di rimandi e riferimenti, possa vivere e essere accolto lontano da via Rovello, ossia dalla “tana del lupo”,  e da quel pubblico colto, preparato, attento figlio dell’alta borghesia milanese o della frequentazione teatrale. Ma staremo a vedere, lo scopriremo.

Intanto, però, lentamente i controluce strehleriani lasciano spazio al buio intenso di una stagione che si deve ancora creare. Oltre quelle luci, come sussurra Roberto Latini, c’è amore, solo amore: tutta quella storia, quel passato, quella tradizione, continua mutandosi, sempre nel segno dell’amore. Eccola, allora la storia del teatro, la battaglia delle forme, lo scontro generazionale: solo per amore.

(la bella foto di copertina è di Masiar Pasquali)

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