Teatro
Amleto: il teatro irrompe all’improvviso
In ogni spettacolo di Antonio Latella c’è qualcosa che è sempre uguale e qualcosa che è sempre diverso. Non sono tanti i registi capaci di riprendere davvero un discorso interrotto la volta precedente. Molti lo dichiarano, di certo in buona fede: ma il più delle volte la continuità è soltanto esteriore, o al limite tematica, estetica, visiva. Invece Latella è oggi forse l’unico regista in Italia che sa ritrovare l’essenza e il nitore di un percorso, del suo percorso, in cui sono immersi più o meno consapevolmente sia gli attori in scena sia gli spettatori in sala, che purtroppo a causa delle restrizioni sono pochi al Piccolo Teatro Studio per il nuovo Hamlet che finalmente ha debuttato a più di un anno dal rinvio – in scena fino al 27 giugno.
Ma qual è il discorso di Latella? Penso si possa comprendere con un esempio scespiriano. Nelle prime battute del testo, gli ufficiali di guardia stanno per raccontare allo scettico Orazio la storia dello spettro apparso nelle due notti precedenti. Ma non fanno in tempo ad arrivare al punto che il fantasma entra in scena. Ecco, il teatro di Latella fa esattamente lo stesso: irrompe all’improvviso proprio quando si è convinti che stia arrivando una spiegazione. Perché Latella gioca a rimettere continuamente in discussione le convenzioni costruite fino a un attimo prima, ricominciando ogni volta, procedendo per accumulo, per discontinuità o accelerazioni improvvise, ma anche per sospensioni, per giri a vuoto fatti in apparenza solo per mettere sadicamente tutti alla prova, prima di arrivare immancabilmente a un punto di deflagrazione emotiva.
Questo Hamlet sembra venir fuori dal niente: due panche da chiesa, un inginocchiatoio, un piano a mezza coda e un arcolaio in fondo. Gli attori, tutti in bianco, si mettono sulle sedute della sala mentre Orazio in giacca e cravatta inizia a leggere le battute, con tanto di entrate e uscite. Federica Rosellini, nella parte del “dolce principe”, raggiunge molto lentamente l’inginocchiatoio, dove si sistemerà per la prima ora e mezza circa, vale a dire poco meno di un quarto delle sei ore e quaranta di durata. Nel frattempo intorno a lei il dramma prende forma, attraversando tutti i registri, dalla tragedia alla farsa, dal melodramma al cabaret. Punto di svolta è ovviamente l’arrivo degli attori, che sono “il diario e il breve riassunto del nostro tempo” dice Hamlet nella bella traduzione di Federico Bellini (la drammaturgia è di Linda Dalisi), prima di sollevare le assi del pavimento e ritrovarci nascosti, quasi imprigionati, i commedianti pronti ad andare in scena.
La famosa parentesi di teatro nel teatro, pensata per mettere alla prova la coscienza dello zio assassino, diventa un commosso omaggio alla storia del Piccolo, con i vecchi costumi riesumati dai magazzini. Gli attori rientrano in abiti neri elisabettiani e al centro della scena si apre una buca, che sarà riempita prima d’acqua per farci annegare Ofelia e poi di terra perché Hamlet possa giocare con i teschi prima di addormentarsi per sempre. Nel finale non si vede alcun duello, né alcun avvelenamento: gli attori escono di scena soffiati via come bolle di sapone, e Orazio torna faticosamente nel suo ruolo di padrone di casa, ma senza più né giacca né cravatta, per leggere per intero quel che resta della scena, compresa la parte con Fortebraccio che di solito si taglia (dove Tom Stoppard ha preso la battuta “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”).
Non si contano le idee, le soluzioni, le letture e riletture che vanno dal solenne al kitsch, dal moto di un arcolaio faustiano alle lamette di Donatella Rettore. Non ci si chiede nemmeno più cosa funzioni e cosa no, perché lo spettacolo va oltre le sue stesse trovate, verbosità e tranelli, per creare una sua dimensione di vita: diventa, per così dire, un mondo. Anche la durata ha senza dubbio un suo ruolo, per nulla scontato, perché permette di abituarsi a questa logica che si fa e si disfa continuamente, dove un pianoforte può accompagnare una buona metà dello spettacolo senza mai produrre nemmeno un suono e le ombre possono cambiare a poco a poco senza che in apparenza le luci vengano modificate in nulla. È impressionante quanto pesino nell’andamento dello spettacolo queste piccole cose impercettibili che accadono sulla scena. Magie e incantesimi che hanno bisogno di cure attentissime anche da parte degli attori intorno. Che non potrebbero essere più bravi, a cominciare da Federica Rosellini, al di fuori di qualunque distinzione di genere, il cui dubbio esistenziale diventa una graduale scoperta di un mondo da cui forse è meglio sottrarsi: romanzo di formazione irrisolvibile di una voce-vita condannata alla disillusione. Nel cast anche Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Stefano Patti, Francesco Manetti, Fabio Pasquini, Andrea Sorrentino, Ludovico Fededegni, anche bravissimo pianista, la magnifica Anna Coppola e il sottile, inquietante Polonio di Michelangelo Dalisi.
Nell’intervista all’interno del programma di sala, Latella dice di aver chiuso un ciclo e di voler smettere di raccontare “le vite degli altri”. Ma in spettacoli come questo non si vedono certo le vite degli altri: si vedono le vite di tutti.
Foto di Masiar Pasquali
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