Teatro
Alla faccia della “famiglia tradizionale”
E infondo sempre lì cadiamo. La famiglia. Padri e figli, figlie e madri, mogli e mariti, tutti uniti contro tutti. Legami mortali, che pure i più disinvolti e progressisti non riescono a sciogliere. Non basta, figurati, andare in analisi: sempre attorno a quei grovigli ci blocchiamo, perdendoci sempre di nuovo, in smarrimenti antichi e moderni. Ribellarsi, a chi e come, non si sa. Ifigenia o Antigone? Cordelia o Nora? Chi sopporta chi? Certo che la “famiglia tradizionale”, che alcuni vorrebbero difendere, addirittura proteggere, è il “focolare” che si è fatto “braciere”, dove ardere, rosolati a fuoco lento, dagli Atridi in poi. Allora, come oggi, spesso si finiva a lama di coltello: gli omicidi di passione sono spesso all’arma bianca.
Un tempo si ammantava di mito e rito, di leggi divine e imperativi morali: ma oggi? Ci si ammazza per molto meno, per un nulla. Dal ring, dalle quattro pareti domestiche non si sfugge tanto facilmente. E il teatro, oggi più che mai, almeno in Italia, in quelle quattro pareti casalinghe ci sguazza, ci affonda e scava, mostra e svela. Non sempre con originalità, ma spesso con sincera adesione, la dinamica familiare è tornata ad essere uno dei leitmotiv della drammaturgia contemporanea. Evidentemente, siamo talmente pressati, ossessionati dal tema della famiglia – ma vi pare possibile che sia un tema da campagna elettorale? – che pure abbiamo bisogno di metterla sotto il vetrino della scena. I nostri autori volentieri (anche troppo) si legano a quelle saghe classiche che tanto mutate non sono. E allora ce n’è per tutti: matricidi, patricidi, femminicidi, violenze, incesti, desideri confessati e inconfessabili, manie e ossessioni, rabbie e solitudini, paure e ricatti. Voilà, le belle famiglie italiane! Possibile che Giorgia Meloni e compagnia non se ne rendano conto? Non bastano 2500 anni di teatro per far sorgere qualche legittimo dubbio?
E dunque di tre spettacoli voglio raccontare, lavori che declinano la crisi familiare in modi e prospettive diverse.
Il primo è uno spaccato popolare e bigotto, quello messo in scena in Sacra famiglia (nella foto di copertina), già il titolo è programmatico, di Nunzio Caponio. Anziani genitori, un figlio ormai maturo tornato da una “missione di pace” con qualche consapevolezza in più. Il paese intorno, i riti della piccola provincia italiana, un padre padrone che fatica a comprendere, una madre che evoca esorcismi di fronte alle tensioni, e lui, quel figlio cresciuto e irrisolto che cerca un po’ di sincerità. Scritto bene, con alti tagli lirici, Sacra Famiglia è una partita a tre, chiusa in un cubo che è stanza e prigione, con i tre personaggi legati a tavolinetti-banchi che possono evocare altari privati e aspra semplicità. Cucina casalinga e Disturbo post-traumatico, zucchine ripiene e Iraq: mangi? Hai fame? Sono le eterne domande di madri che brandiscono ancora il cordone ombelicale. Ma non c’è ascolto, non c’è comprensione: e quell’uomo poco convinto ormai del suo stare al mondo cerca consolazione in una prostituta, portatrice di verità e serenità. Il timore dello scandalo è nodale in questo ritratto popolare: il perbenismo incide, cambia, snatura. Così come la “tradizione dei ruoli”, che potrebbe sembrare appannaggio di un passato ormai andato, è invece conclamata e inesorabile contraddizione del presente. Interpretato dallo stesso Nunzio Caponio, così ruvido, cupo, massiccio, con i bravi Maria Grazia Bodio e Cesare Saliu, lo spettacolo conferma il buon momento di Sardegna Teatro, lo Stabile che ha schierato, e sta schierando, alcune tra le proposte più interessanti di questa stagione: da Lucia Calamaro al Macbettu, da Deflorian/Tagliarini a Cesar Brie a Marcello Fois e altri, il teatro diretto da Massimo Mancini raggiunge un’altra tappa in questo intenso viaggio nella drammaturgia contemporanea.
In un piano più astratto, eppure concretissimo, gioca invece il drammaturgo Alberto Bassetti, uno delle bandiere della nostra scrittura teatrale, che porta in scena l’incontro confronto tra un fratello e una sorella. Proprio Sorella con Fratello è il titolo dell’intenso lavoro visto al Teatro Argot di Roma. Una storia solo apparentemente semplice: lei sta per uscire da un carcere, da una casa famiglia, lui è un avvocato, fratello fin troppo devoto. Lentamente si svela il fattaccio, il retroscena, in una dialettica che, mano a mano, si fa sempre più serrata e sgradevole, e che sa sgranare tessere di un mosaico più complesso di quel che poteva sembrare. La vessazione di lui su di lei diventa quasi insopportabile, ma un ribaltamento finale ristabilisce verità, ruoli e moralità. Calzanti Alessandro Averone e Alessandra Fallucchi aderenti e intensi nei ruoli, nella regia asciutta, rigorosa, di Alessandro Machìa per un racconto che alterna brevi squarci di canzoni rock famose a magmatici monologhi in cui tutto il torbido viene dapprima evocato, poi mostrato in una acre autopsia dei sentimenti.
E una famiglia “in divenire” è quella che si sfalda fragorosamente nella brillantissima commedia Le Prénom (cena tra amici) di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière. Commedia francese ben fatta, prezioso meccanismo comico, Le Prénom, diventato anche film, gioca la carta di una comicità nera e tagliente. Nella cena del sottotitolo si trovano due coppie e un quinto amico. Una delle due coppie aspetta un figlio e il futuro padre, per fare uno scherzo agli altri, dice che lo chiamerà Adolf (o meglio, con sottile ironia, Adolphe). La trovata è tale da far precipitare una valanga di verità: il non-detto si svela, con esiti devastanti.
Ma al di là della trama, puro pretesto per un fuoco d’artificio di battute sagaci, di sfottò implacabili, di aggressività crescenti, Le Prénom ha dalla sua i prodromi della denuncia sociale: le coppie, colte e borghesi, che stanno insieme per un amore, che presto si muta in noia, abitudine, sopportazione, piccoli equivoci (solo apparentemente senza importanza) capaci di trasformare una allegra cena in un carnage. La versione scenica prodotta dallo Stabile di Genova, ottimamente adattata da Fausto Paravidino e diretta con sguardo sornione da Antonio Zavatteri, ha in sé la forza di un cast eccezionale, che affronta questi personaggi ormai da tre anni, con successo sempre crescente. Stanno così “bene” in scena, che vale la pena citarli tutti: encomiabile l’affascinante Alessia Giuliani, che fa della padrona di casa Elisabeth una elegante e svagata signora, all’inizio, e poi una macchina da guerra; arguto e forse “paraculo” il marito Pierre, cui Alberto Giusta dà un’aria trasandata e intellettuale da flâneur. Implacabile e ironico “ragionatore” è Vincent, fratello di Elisabeth e futuro padre: è lui che improvvisa, da “onesto Jago”, il travolgente scherzo, ed è bravissimo Aldo Ottobrino a giocare carte di arguta ferocia. La giovane e bella moglie, chic e snob, è interpretata da Gisella Szaniszlò: non perdona nulla, non fa sconti a nessuno. Infine, l’amico di casa, Claude, ossia un prezioso Davide Lorino: a lui il compito di uno “svelamento” che cambierà ulteriormente la dinamica della catastrofica serata. Si ride tanto, e bene, per questo Le Prénom.
E forse è questa la “morale”: nell’inferno senza scampo della famiglia tradizionale, tanto vale prendersela a ridere.
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