Teatro

Alice Arcuri, attrice: il teatro come cardiochirurgia

2 Dicembre 2016

In questi giorni è in scena a Roma, al Teatro Belli, per la rassegna Trend diretta da Rodolfo Di Giammarco, interprete di Lovesong di Abi Morgan, per la regia di Carlo Emilio Lerici. Ma, teatralmente parlando, Alice Arcuri è sicuramente genovese. Sotto la lanterna, infatti, e alla scuola dello stabile, si è diplomata nel 2006 e da allora è stata protagonista di molti spettacoli, soprattutto in quelli diretti da Marco Sciaccaluga. L’avevamo vista in Intrigo e Amore, di Schiller, e la ritroviamo mentre sta preparando il ruolo di Nina nel Gabbiano di Anton Cechov. Naturale partire da qui per saperne di più.

«Debuttiamo a febbraio 2017. Per prepararmi sto letteralmente facendo i compiti. Vedo video, il più possibile, di precedenti edizioni. Sono anche andata a Londra al National Theatre per vedere un allestimento. Poi, da tre anni, lavoro con un acting coach, Paolo Antonio Simioni: ci incontriamo una volta all’anno, quasi fosse una revisione dell’auto. Avevo scelto, per caso, di lavorare con lui proprio sul personaggio di Nina e abbiamo fatto un percorso interessante. Non ho ancora letto la nuova traduzione di Macrì, adottata da Sciaccaluga, e sarà un passo difficile, perché nel frattempo ho studiato su un’altra edizione e invece dovrò abituarmi a parole diverse. Insomma, studio! E nel frattempo ho scritto una mail lunga quattro pagine a Marco Sciaccaluga. Abbiamo, con lui, una comunicazione non verbale molto intensa. Sono un’attrice che non fa molte domande ma cerca di arrivare alle prove con più risposte possibili. Faccio un percorso di scelte in solitaria, poi arrivo alle prove e metto sul tavolo tutte le mie proposte. Marco mi dà dei limiti. Lavoriamo assieme da quasi dieci anni, ci conosciamo da quando mi sono diplomata alla Scuola dello Stabile di Genova».

Qual è stato il momento più bello in questa lunga collaborazione?

«Direi proprio lo Schiller di Intrigo e Amore, fatto la passata stagione (ne parlavo qui). Venivamo da un periodo di lavoro insieme a Caen, dove facevo l’assistente a Marcial Di Fonzo Bo. Abbiamo avuto tanto tempo per confrontarci. Vedere all’opera quei due bravissimi attori, Marcial e Frédérique Loliée, mi ha fatto capire tanti aspetti del nostro lavoro: si tratta di essere sempre alla ricerca, sempre alla scoperta di nuove prospettive. Sono due attori molto disciplinati ma riescono sempre a rivoluzionare le scelte che fanno: ed è molto importante, coraggioso. Marco Sciaccaluga, nelle sue regie costruisce una struttura rigida, fissa, dove non ci sono improvvisazioni. Così, lavorando allo Schiller, ho invece scoperto tante cose nuove. Ma senza dircelo, lasciando che le cose accadessero, in quella libertà di fare proposte cui accennavo».

Come passa dallo studio alla proposta scenica?

«Non ragiono tanto su quel che faccio: sono un greyhound che deve correre! Vado di solito per istinto, ma ultimamente cerco di essere meno guidata dal “femminile”. Mi sono sempre domandata perché le attrici piangano sempre e gli uomini attori non piangano mai…».

Un momento di
Un momento di Lovesong

Qual è la risposta?

«Le attrici di solito hanno un canale aperto con l’emotività, sicuramente più forte degli uomini. Ma c’è una sorta di “compiacimento” in questo. Gli uomini sono più freddi, anche forse per i ruoli, che sono di solito scritti in certo modo. Ma è difficile che un uomo raggiunga alti livelli di emotività senza risultare patetico. Solo in pochi riescono. Le donne, invece, vanno molto a fondo in questa strada. Per quel che mi riguarda cerco, ultimamente, di non arrivare alle cose dal punto di vista prevalentemente emotivo, ma ragionando di più, lucidamente, in base a quello che deve risultare nella struttura della scena, nella narrazione».

Deve farsi uomo?

«Sì, farmi un po’ uomo: attaccare i personaggi in modo più “maschile” possibile. Dunque ragionando freddamente e cercando di capire analiticamente gli equilibri della scena anche dal punto di vista registico».

La prevalenza del maschile, però, è anche un problema anche di ruoli: sono molti meno quelli per attrici che non quelli per attori…

«Certo, e non dimentichiamo che gran parte dei registi in attività in Italia sono uomini. E, per quanto sensibili e attenti siano, ne sanno poco di donne. O sanno comunque quel che ne sanno gli uomini. Anche nei testi le donne sono troppo spesso catalogate: le solite sante, madri, amanti, puttane… Cosa che non accade, o accade meno, nella drammaturgia contemporanea. Penso al Ritorno a casa di Pinter: non ho dovuto versare una lacrima per fare quel personaggio. Un’esperienza meravigliosa!».

Nina piangerà?

«Probabilmente sì, nell’ultima parte del Gabbiano piangerà».

Le prove di Intrigo e Amore con Marco Sciaccaluga
Le prove di Intrigo e Amore con Marco Sciaccaluga

Cosa è un personaggio?

«Una scoperta. Un essere umano. La cosa “reale” che mi interessa di più in teatro. Mi sento forse stanislavskijana: il personaggio è una scoperta di qualcosa di te, e degli altri. Ovvero un modo di capire meglio gli esseri umani. Ci sono alcuni personaggi di cui ti innamori profondamente, e ti lasciano qualcosa addosso e ti fanno capire cose fondamentali come attore. Facendo La scuola delle mogli come lo Schiller, ho avvertito una sensazione fisica di agio, di libertà, di piacere perché scoprivo canali di me di cui non avevo consapevolezza. Ed è la bellezza del nostro lavoro artigianale: ogni personaggio, sino a che non trovi la chiave segreta per farlo, non ti parla. Mai. Sono un’attrice mai soddisfatta: ma con pazienza trovo, in alcuni momenti delle prove, una battuta, un momento che ti dà la chiave segreta. Insomma, sono storie d’amore. L’emozione di leggere un copione per la prima volta sembra un primo appuntamento. Voglio leggerlo sottolineando con la matita giusta, nel momento giusto, nel posto perfetto. Perché l’imprinting è fondamentale. Ognuno ti lascia qualcosa, ti modifica, se sei fortunato ti risolve: può tirare fuori il peggio di te o anche il meglio, a volte fanno paura, a volte sono colpi di fulmine, altre volte ci sono incompatibilità insostenibili. Ma tutti fanno crescere e quando finiscono ti lasciano sempre un periodo di lutto. L’amore può non scattare subito ma giorno per giorno, oppure, un giorno per caso, per un dettaglio che non avevi colto».

E in questa prospettiva qual è la funzione del regista?

«Fondamentale. Più che sapere “cosa” dire è fondamentale avere a che fare con registi, con persone che sappiano “quando” dire, ossia colgano il momento giusto per dire le cose. Devono essere psicologi: ci sono attori che hanno bisogno di complimenti, io invece sono come gli asini, ho bisogno di bastone e carota. Ma la carota deve arrivare più tardi possibile. E mi bastono tanto da sola. Detto questo, anche la presenza degli altri attori è fondamentale. Ho avuto incontri importanti con colleghi come Andrea Di Casa, Roberto Serpi, Aldo Ottobrino, Andrea Nicolini. Ed è bello quando trovi fanatici come te: si discute tantissimo, continuamente, come se fare l’attore fosse una struttura matematica che puoi variare con piccole formule all’infinito per ottenere minimi miglioramenti. È una cosa da maniaci, da ossessivi compulsivi ma che ti fa vivere».

Ha lavorato anche con molti registi. Ne vuol ricordare qualcuno?

«Elio De Capitani e  Ferdinando Bruni, che si divertivano come pazzi quando facemmo L’anima buona del Sezouan. E anche io mi divertivo da morire con loro».

Ma quali sono i suoi maestri? Quali i suoi punti di riferimento, anche non prettamente teatrali?

«Marco Sciaccaluga, sicuramente. Poi ho imparato molto dalla musica, che è importantissima per me: ci sono cose cui arrivo solo attraverso la musica. Guardo tantissimi film, adesso anche le serie americane – da Breaking Bad a American Horror Story, con attrici incredibili, a Bates Motel. Poi ci sono gli scrittori come Maupassant, che ho amato, o Tolstoj: vorrei tanto fare Anna Kerenina. E ci sono spettacoli che hanno cambiato il punto di vista sulle cose: Amleto di Nekrosius, più recentemente le Tre Sorelle diretto e reinventato da Christiane Jatahy. O il teatro di Valerio Binasco, oppure ancora l’Orestea di Castellucci che mi ha lasciato visioni fortissime…».

Con Eros Pagni ne La scuola delle mogli
Con Eros Pagni ne La scuola delle mogli

E della Scuola dello Stabile cosa ricorda?

«Una fatica mostruosa. Sono entrata a 19 anni, ma già avevo un super-io dispotico che mi ha sempre costretta a lavorare tanto. Mi ricordo la sensazione di una “bolla primordiale”, da cui era difficile uscire: parli di teatro, vivi di teatro, vedi sei spettacoli a settimana. Una sorta di “grande fratello” tutto teatrale. È stato difficile: l’insegnamento era molto duro, ma ho capito che – non so per quale motivo – dovevo imparare a indurirmi, a stare in scena in un certo modo. Poi, nel lavoro, ho incontrato persone forti, come Eros Pagni o Gianluca Gobbi, e ho capito che quegli insegnamenti erano preziosi. Ho bisogno come attrice di essere trattata anche in modo ruvido. Ma ho capito quanto fosse importante saper sopportare un peso forte: non solo per non soccombere, ma anche e soprattutto per dare forza agli altri, quasi essere una calamita. Per non far affondare la zattera».

Perché ha scelto il teatro?

«Ho fatto scherma a livello agonistico fino a 14 anni. Poi ebbi un problema di salute e dovetti smettere. Mia madre, intanto, mi portava a teatro o all’opera. Devo tutto a lei. Mia nonna era una scultrice, mia zia una pianista famosa, siamo sempre stati vicino all’arte, ma io ero convinta di fare la cardiochirurga, perché vengo da una famiglia dove, da cinque generazioni, sono tutti medici. Quando ho smesso di fare sport, mia madre mi ha iscritto a un corso di teatro a Genova, in una scuola che si chiama “La quinta praticabile”. Accettai controvoglia, ma poi ho iniziato a divertirmi fino a quando non abbiamo fatto una specie di recita, uno spettacolino in cui ero vestito da pagliaccio, ero bruttissima e le altre tutte carine! Ma ricordo che ebbi un’epifania, una emozione fortissima. Quando sono uscita dal teatro, dissi alla mia migliore amica che avrei voluto fare quella cosa là, fare teatro. Avevo 16 anni. Era come fare sport, la sensazione di buco allo stomaco prima della gara, il rilascio delle endorfine alla fine dello spettacolo è come fare bunch jumping!»

Oddio, il teatro potrebbe essere anche una forma di cardiochirurgia…

«Sì. È un modo di arrivare al cuore. Il cuore mi ha sempre affascinato: è l’organo senza il quale si spegne tutto. È la prima cosa che arriva ed è l’ultima che se ne va. Sono convinta, oggi, che non ci sia altro modo di arrivare al cuore degli altri se non attraverso l’arte. Potevo provare la musica o la danza, ma non ero portata. Così è arrivato il teatro. Ma mi interessa ancora la cardiochirurgia e ogni tanto chiedo informazioni a mio padre, che ancora opera e anzi tra poco andrà in Sud Africa per operare».

Cosa vuol dire essere madre e attrice?

«Farsi un bel culo. Vuol dire complicazioni. È certo difficile: però devo dire che mi dà una forza in più. Da quando è nato mio figlio, il tempo si è molto ridotto, la clessidra ha iniziato a scendere più velocemente. Il che vuol dire che, avendo poco tempo, mi devo concentrare e fare tutto velocemente. La fame di teatro che avevo prima era bulimica: è una caratteristica degli attori voler fare tutto e pensare subito a quel che farai dopo, oppure ancora vedere un collega in uno spettacolo e invidiarlo perché non ci sei tu su quel palcoscenico. Oggi voglio pensare meglio a quello che faccio, voglio prendere appieno la responsabilità delle mie scelte, studiare il mio modo di vedere il personaggio. Cercare, insomma, di essere un’attrice con più coscienza. E provare a creare, per quel che ci è dato, delle piccole opere d’arte».

Vota? Fa politica?

«Sì, voto. Ma non faccio politica. La politica mi fa schifo, mi fa venire una rabbia fortissima. Non accetto le ingiustizie. La bellezza del nostro paese è proporzionale alla bruttezza delle persone che lo gestiscono. E questo mi fa bollire il sangue, spaccherei tutto. Il teatro può essere una risposta a questa mala politica: mi interessa creare una forma di resistenza passiva. È difficile fare arte in un paese che non fa nulla per sostenere la cultura e lo spettacolo. Dove hai meno possibilità di creare, cerchi di capire il modo di reagire: e l’arte potrebbe avere la funzione potente di creare bellezza, nonostante tutto. Forse non cambia le persone, non arriva a tutti: molti sono ormai apatici, non toccati da nulla. Però si può e si deve tentare. C’è un bel film che per me racconta la funzione dell’arte, Le vite degli altri: ecco, in quella storia ci sono alcune vibrazioni che il protagonista non può non sentire. Il problema è che in tanti, invece, non vogliono proprio sentire».

Il teatro che fa è politico?

«Non credo, certo lo era Genova01 di Fausto Paravidino, uno spettacolo dichiaratamente politico e molto bello. Forse, come interprete, non andrei a cercare un teatro politico, ma se mi venisse proposto qualche spettacolo capace di toccare temi per me importanti, lo farei assolutamente».

Come vive Genova?

«Si sta da dio. Teatralmente è un sistema un po’ complesso. Ha tanti teatri: uno spettatore può trovare proposte interessanti, ma è una città chiusa tra mare e montagna ed è difficile uscirne. È una città un po’ maledetta perché se nasci lì, cercherai sempre di andare via ma, al tempo stesso, cercherai sempre di tornare: quando un genovese fa la sopraelevata, gli si spalanca il cuore. È una città superba, dunque è altrettanto difficile che entri qualcosa se non sia già stato accettato. È una città che si specchia nel suo porto: un po’ vecchia, aspetta sempre qualcosa, ma è autosufficiente. Un atteggiamento difficile da scardinare, anche teatralmente parlando».

Il teatro cosa può fare?

«Ci sono zone della città sottovalutate o non utilizzate. Ed è un peccato. Vorrei che il teatro andasse di più fuori dagli spazi teatrali canonici. E mi piacerebbe vedere un teatro affidato e gestito da un gruppo di attori giovani e giovanissimi. Ci sono tanti artisti, attori e registi in gamba che dovrebbero avere un proprio spazio. Potrebbero, al tempo stesso, rivitalizzare parti intere della città».

E come vede la situazione in Italia?

«La vedo male. Il problema sono i giovani: ma “I giovani” non intesi in generale. I giovani sono io, ovvero ciascuno di noi. E i giovani non vanno a teatro anche perché non vedono i coetanei farlo. È una attitudine, una pratica tutta italiana, che sembra esclusiva di una fascia di età a cui non ci sentiamo vicini. Negli interpreti, nella scelta dei testi: finché il teatro sarà fondato su attori di una certa età, che continuano a fare un certo tipo di teatro, i giovani saranno estranei e distanti. La questione non è non fare i classici, ma riportarli a noi: e finché non ci sarà un passaggio generazionale, il teatro non avrà sbocchi presso i giovani. Per fare un esempio: il teatro dovrebbe legarsi maggiormente ai social, arrivare a un pubblico diverso; far sì, insomma, che questa struttura “antica” possa davvero legarsi al “nuovo”, come avviene normalmente a Londra o a Berlino. Pensiamo come alla Schaübhüne lavorano sull’uso delle immagini, sulla comunicazione, sull’accoglienza. Perché non imparare da loro? Il lavoro del teatro è interessante e affascinante, ma si tratta di comunicarlo e pubblicizzarlo in modo diverso. Anche perché, nonostante la gerontofilia dominante, la qualità artistica italiana è alta. Poi ci sono altri problemi…»

Quali?

«Sono pochi gli spettacoli italiani che vanno all’estero e ancora ci sono troppi compartimenti stagni: il teatro sociale, il teatro di ricerca – che cercano? – il teatro classico. Mi sembra manchino spettacoli capaci di accogliere tutto, senza pregiudizi,  contenendo tutti questi bellissimi aspetti. Lo stesso vale per gli attori: o fai ricerca o fai classico, contrariamente a quanto avviene all’estero. Ma perché? Insomma, mi sembra che per tanti aspetti siamo ancora un po’ un “paesino”, troppo chiuso: le cose nostre a casa nostra».

Ma di teatro ci si vive?

«Se sei fortunato, ci vivi. Io faccio anche tanta pubblicità. E ci vivo. A malapena…».

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