Teatro

Al Piccolo un Pasolini di profilo firmato Latella

8 Novembre 2016

In scena al Piccolo Teatro Studio fino al 10 novembre c’è la madre di Pasolini, sempre di profilo, «la sola al mondo che sa», riguardo al cuore del poeta, «ciò che è stato sempre». Un monologo dal nome sillabico, avversativo, l’incipit di mamma, due terzi di mai. Insomma MA, progetto esile ma suggestivo di Antonio Latella, scritto da Linda Dalisi a partire dalle figure materne che Pasolini ha sparso tra inquadrature, scene, versi e tanti altri suoi scritti che pontificano o raccontano.

Messa di lato, in due dimensioni ignare del pubblico, sta Candida Nieri, inchiodata in scena da due scarpe gonfiate a dismisura che la bloccano su uno sgabello. Parla al microfono suo malgrado, lo tiene in mano con un panno – per proteggersi? per pulirsi? Se in principio era il verbo – e Pasolini di Vangeli si intendeva -, il «ma» del titolo è l’origine del principio: il bimbo che accenna, con bilabiale seguita da vocale, i suoni che a poco a poco moltiplicherà per due, per pronunciare un «mamma» che già significa tutto il bene e il male del suo inconscio non nevrotico, non ancora.

Lo spettacolo sembra raccontare la versione di Susanna Colussi, «mammetta» di Pier Paolo che segue con lo sguardo scandali e successi del figlio, la sua vita e la sua morte, entrambe violente. Narrazione a prima vista solo materna: il film dei suoi ricordi, recitava il suo unico titolo – scrittrice anche lei -, ricordi che possono essere tremendi, come la sfiancante lettura espressionista dell’autopsia del figlio assassinato. Poi maledice se stessa, perché gli ha insegnato a leggere, scrivere, parlare, perché gli ha dato strumenti per quei suoi no smisurati, sproporzionati quasi quanto le scarpe che trattengono in scena l’attrice: «Ma dove vado io con questi piedi».

“Piedi gonfi”. Edipo in greco significa questo. Un’etimologia che si fa largo in scena quasi di nascosto con Freud a braccetto, per nulla esibito né didascalico: rarissima qualità per un regista. Alla fine la mamma si alza, si sposta con camminata lenta e goffa, non per ridere né per commuovere. Fa qualche passo fino a una griglia che ha davanti, tutta accesa di lampade, di quelle per leggere a letto, e trova una scarpina. Così l’infanzia chiude il monologo, che è forse più di lui che di lei, più del figlio che della madre, anzi della «ma». Del resto le scarpe enormi sono da uomo: da una parte Edipo e dall’altra la madre che è una foresta in cui la voce del figlio si perde, scriveva Rilke. Per chi un poco riesce a sentirci, al massimo arriverà un «ma». Nient’altro.

«Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu». Tutti Edipi questi poeti, a ritroso nella storia da Pasolini fino a Gesù. Nel Vangelo secondo Matteo Maria la fa proprio mammetta Susanna: «Lacrimosa dies illa» fin da allora. Ma ce ne sono altre, di mamme pasoliniane in sfacelo: in Medea, in Salò, perfino Roma è una mamma, la Magnani naturalmente. Due altoparlanti come totem trasmettono interi dialoghi da questi film. A dire il vero se ne sentono un po’ troppi, meglio quando è la Nieri, che emoziona a ogni sillaba, a far rivivere passi da sceneggiature che andrebbero sempre lette come poesie. Poesia in forma di script, in cui la metafora a volte diventa una figura intera, F. I., a volte un primo piano, P. P., a cui manca solo una terza P. per chiudere il nome del figlio.

 

 

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