Teatro
Al Mess Festival di Sarajevo il corpo si fa politica
Basta ancora fare la ormai proverbiale e arbasiniana “gita a Chiasso” per guardare all’Italia con occhi diversi e per ridimensionare gli arruffati, affannosi, confusi problemi che attanagliano il nostro paese. E per svelarne tutto il provincialismo cattolico, perbenista e pretenzioso.
A Sarajevo, dove pure la situazione non è facile, al vivacissimo MESS Festival diretto da Dino Mustafic, giungono echi da tuto il mondo. Naturalmente in programma ci sono artisti che arrivano dai Balcani, non solo bosniaci ma croati, serbi, montenegrini, sloveni (alla faccia della guerra civile: il teatro crea ancora scambi, incontri, dialoghi…), ma anche di altri Paesi, Italia compresa.
Ci è capitato, allora, di assistere a un meraviglioso, piccolo, intimissimo rito teatrale messicano. La compagnia Vaca35 Teatro en Grupo, diretta dal giovane Damian Cervantes, ha presentato con grande successo Lo unico que necesita una gran actriz, es una gran obra y las granas de triunfar. Interpretato magistralmente da due attrici (Diana Magallòn Garcia e Mari Carmen Ruiz Benjumeda) dai corpi diversissimi – l’una, obesa e l’altra magra, segaligna – lo spettacolo è una versione feroce e felice de Le Serve di Jean Genet, e dello scrittore francese mantiene viva la violenza, la sordità, l’intimità scandalosa. In un magazzino teatrale scrostato, decisamente in rovina – ma creato comunque per luoghi non convenzionali -, con il pubblico addosso a restringere il piccolo spazio scenico, un paio di lampadine al muro e un lavandino dove ossessivamente lavare panni da stendere lì accanto, le due donne fanno l’eterna simulazione dell’omicidio della “signora”. Il ritmo in apertura è forsennato, gridato, eccentrico. Poi una pausa: “cut!”. La prova è andata bene, le due “serve-attrici” si congratulano l’un l’altra con enfasi.
Ma basta insinuare un dubbio – “hai saltato una battuta” dice la magrolina – che si scatena un inferno di insulti volgarissimi e sguaiati. Ecco, procede così lo spettacolo, con quei corpi che si incontrano e si scontrano, in un magma di ingiurie, poesia, sussurri, gesti minimi e grandiosi. È un equilibrio delicato e inquietante, un percorso che sembra evocare la vita reale, concreta, delle serve genettiane, scoperte nella loro quotidianità, quasi uno “spin off” – se così posso dire – del dramma originale. Una versione che, pur giocando sin dal titolo con la metateatralità dell’opera, ne esalta l’aspetto socio-economico: sicuramente in Messico si può parlare ancora seriamente di lotta di classe. Queste sottoproletarie sono il loro corpo: obese o anoressiche, spudoratamente hanno solo quel corpo, quella voce, hanno solo quella materia con cui fare i conti. E con tocco delicato, il regista Cervantes affronta il tema della violenta contraddizione di un sistema sociale che abbandona a loro stesse queste donne povere, derelitte. Non resta loro che consolarsi lavandosi reciprocamente in una tinozza, poi con una breve preghiera alla Vergine, infine raccontandosi una favola prima di dormire. Commovente e struggente.
Ancora con il corpo fa i conti il mozambicano Panaibra Gabriel Canda in Marrabenta solos. È un affascinante e intelligente riflessione sull’attualità e la storia del corpo africano. Canda declina le sue origini: nato in un Territorio d’oltremare portoghese, diventato poi repubblica popolare comunista, poi repubblica democratica, ma appartenente alla tribù Bitonga del padre, quest’uomo si trova ad essere africano, lusofono, comunista, liberale…
Cosa è? È una identità complessa, con cui fare sistematicamente i conti. Accompagnato in scena dallo straordinario chitarrista Jorge Domingos (a metà tra Jimi Hendrix e Ali Farka Touré), maestro dello stile Marrabenta, tipico del Mozambico, Canda affronta sequenze di movimento che sembrano evocare la commedia dell’arte, la biomeccanica, la danza tradizionale, la modern dance. In un crescendo dal taglio aspramente artaudiano, il performer afferma la necessità di negare quell’idea e quella retorica di “corpo”: rifiutare il corpo rituale, quello tradizionale, il corpo nero, il corpo africano per diventare, paradossalmente e tristemente, un “integrato portoghese di pelle nera”. È dunque un corpo-politico, quello che dichiara ed espone Canda: capace di superare l’inquietante e banalizzante concetto di identità, così complesso e evanescente, per farsi semplice e viva presenza, ossa e carne e respiro del “qui e ora”, rivendicando l’immediatezza e la verità dell’essere umano al di là di titoli, provenienze, etnie, colori, religioni. Dopo quel meraviglioso e intenso crescendo, lo spettacolo sbanda un po’, si ripete, torna sulle metafore già chiarite, ma si riprende egregiamente nel finale, di rara e sincera intensità.
Nella dialettica realtà/identità si colloca anche La fattoria degli animali, di George Orwell, adattato dai drammatur Zelika Udovicic Plestina e Dubravka Zrncic-Kulenovic, per la regia che lo stesso Dino Mustafic ha fatto per il Sartr Teatar, il “Teatro di Guerra” di Sarajevo.
È interessante il prologo: il pubblico, con un sistema di voto divertentissimo (suonando delle campanacce!), decide chi tra gli attori avrà quale ruolo. È uno pseudo autore-narratore Orwell a guidare il gioco: tutti i giovani interpreti sono allineati tra scena e platea, devono candidarsi per essere votati e scelti. Usano claim politici, fanno proclami, sono compentitivi e seducenti. Una volta assegnati i ruoli, entrano in una arena-ring dove prenderà vita l’allucinante e allucinata storia degli animali orwelliani. Con ritmi brechtiani, scanditi da songs evocative e allusive, gli attori allestiscono la feroce parabola del contratto sociale contemporaneo. Rivoluzione, democrazia, dittatura, liberalismo, sfruttamento, corruzione: c’è tutto, qua, nell’Orwell profetico del 1945 come in qualsiasi paese europeo di oggi. La versione di Mustafic, poi, declina pesantemente e coscientemente sul contemporaneo: l’uso disinvolto della metafora testuale diventa chiave per un confronto serrato sulla politica presente e sulla realtà bosniaca. Il gruppo di 13 attori, tutti bravi, non esita a usare frasi tratte discorsi di importanti leader politici locali, svelandone la vacuità, la violenza e la retorica sterile e immediatamente riconoscibili per il pubblico di Sarajevo. E sarebbe interessante vedere l’effetto che questo spettacolo farebbe, adattato, sul pubblico italiano.
Ps. In un precedente articolo, auspicavo che il bel lavoro The forbidden zone diretto da Katie Mitchell visto a Sarajevo arrivasse anche sui palcoscenici italiani. Dall’ERT-Emilia Romagna Teatro, con merito tra i coproduttori, mi hanno fatto sapere che lo spettacolo era già in programma nel vivacissimo festival VIE di Modena. Ma, visti i costi dell’allestimento e visti i tristissimi tagli nei finanziamenti pubblici avuti dal Teatro Nazionale, lo spettacolo non si farà. Ecco, un eclatante risultato della patetica riforma di settore: c’è da stare allegri.
Devi fare login per commentare
Accedi