Teatro
Aggrappati alla vita, Petruzzelli canta i vignaioli al Teatro di Terra
Dionigi è un vignaiolo del nostro tempo. Ama il suo vino. E questo è così buono che talvolta viene premiato. In una di quelle benedette giornate, aspettando di ricevere quello che è il segno di riconoscimento per la sua abilità artigianale, riflette sul passato. Alla propria storia e a quella della sua gente. Dura e complessa come è la vita che poi, di per sé, può comunque essere una straordinaria avventura. Così Pino Petruzzelli del Centro Teatro Ipotesi legato da lungo sodalizio al Teatro Nazionale di Genova, attore e ricercatore di grana fine e altrettanta sensibilità racconta Dionigi. E lo fa in un luogo speciale davvero. Un inedito Teatro di Terra costruito dai covoni di paglia che stringono a semicerchio quella che è la scena. La quarta parete è un muro di canne che la brezza della sera agita come piccole bandierine color smeraldo. Solo poche settimane prima qui c’erano solo erbacce e fitta boscaglia di canneti e intrecci di rampicanti che un gruppo di volontari ha disboscato seguendo le direttive di Rita Atzeri, direttrice artistica della compagnia teatrale il Crogiuolo che, recuperando un pezzo di terra dimenticato, proprietà di famiglia, a Quartucciu, hinterland sospeso tra metropoli e campagna, ha inteso dare vita a un singolare esempio di orto urbano condiviso, in ricordo della sorella Luisa, instancabile pasionaria sempre dalla parte degli ultimi. L’orto diventato giardino di Quartucciu e il suo Teatro di Terra, per tre giorni hanno così ospitato una mini rassegna, Mariposa de Cardu con la presenza di Lorenza Zambon con “La Dama degli Argonauti” della Casa degli Alfieri, il film di Enrico Pau, “Jimmy della collina” tratto dal racconto omonimo di Massimo Carlotto e la bravura del maestro burattinaio Tonino Murru de Is Mascareddas in “Anima e Core”. Tutto intorno alla balle di fieno sono state messe a dimora piante aromatiche che rilanciano felicemente effluvi balsamici tra odori di paglia ed erbe calpestate.
“Io sono il mio lavoro” è il titolo dello spettacolo del teatrante ligure d’adozione- ma anche di un libro pubblicato per Pentagora- che è quasi un manifesto: rivela il forte ancoraggio di chi lavora i campi, semina e raccoglie le frutta e le olive: una realtà fatta di sacrifici, in una terra particolarmente dura quale è la Liguria. Il teatro di narrazione di Petruzzelli incrocia racconti e piccole verità fatte di amore per la vita e il lavoro, unica fonte di sostentamento. Racconti scovati lungo i crinali di montagne aspre che guardano il mare, tra i filari di vigne impossibili. Ricordi e ferite che uomini e donne di queste terre hanno consegnato al viaggiatore e poeta, narratore e custode sacro di memoria. Petruzzelli/Dionigi così, in questo spettacolo allunga lo sguardo verso infanzie e adolescenze maturate nei tempi di un lavoro che spacca la schiena eppure restituisce dignità. Perchè un uomo senza un lavoro che vita è? Quale famiglia può crescere?
Qua e là emergono angoli di nostalgia. Le corse verso il frantoio dove una volta alla settimana lo zio cucinava lo stoccafisso, cibo sacro che evocava terre lontane. Fa viaggiare la fantasia anche dentro ambienti fatiscenti dove però si riconoscono i segni della fatica. In una sera del 1940 il nonno se ne andò via per sempre. Ai ragazzi impauriti la madre insegnò quel dì a non temere la morte perché è come la vita. Una attaccata all’altra. Accade anche per il vino, e Dionigi lo sa bene. “Per lui vigna e vite sono fuse insieme, in un rapporto d’amore. E l’amore non divide ma unisce”. Così se il giorno delle nozze gli sposi corsero a perdifiato a vedere il disastro tra le piante e i filari della grandine che li colpiva come sassi, l’anno successivo si salutò la buona vendemmia e la nascita di un figlio.
Quanto quei monti e quelle vigne hanno visto nel tempo! Testimoni mute di momenti anche dolorosi e tragici. Una sera un fascista italiano e tre nazisti tedeschi arrivarono alla cascina. Uno di loro prese a forza una ragazza e la violentò. Gli altri nel frattempo s’ingozzavano e ridevano. Quattro, cinque colpi di pistola e quella famiglia giunta da lontano per ricostruire il domani in quelle terre finì giustiziata a freddo. E venne il tempo di gettarsi alla macchia e diventare partigiani, lottare perché non ci fosse più il fascismo ma un tempo migliore per le giovani generazioni. E’ poi l’epoca della ricostruzione dove la Grande Storia si mescola e coincide con quella di ognuno. Qui, tra siccità e terreni da dissodare, muretti a secco e terrazzamenti arditi c’è la vita da far rifiorire laddove spesso la morte è arrivata con il suono sordo di una forbice che taglia il grappolo di vite. Pino Petruzzelli ripercorre tutto questo andando su e giù per sentieri tra olivi e limoni, filari di vigne che s’inerpicano in alto, raccontando a un pubblico rapito quello che sono il rispetto e un’etica per il lavoro.
Piccoli aneddoti compongono un ritratto di un’unica umanità unica. Come il paese di Perinaldo, primo Comune d’Italia nel 1909 a celebrare il Primo Maggio e dove si raccontano ancora storie da Peppone e Don Camillo, di dispute di campanili e orologi. Dionigi vignaiolo ha visto e sa. Ci ha messo una vita per trarre un vino che ora è amato ed è premiato. Ma per arrivarci ha dovuto percorrere un lungo e tortuoso cammino tenendo la barra dritta. Masticando fatica e amarezze. Dice Petruzzelli/Dionigi che “ci sono lavori che non possono prescindere dall’amore, molto diversi da quelli dello sciame inquieto di consumatori che popola le nostre strade. Così, il vino di Dionigi, prima che di mandorla e liquirizia, sa di fatica, sudore, storia e voglia di resistere e di amare, malgrado tutto».
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