Teatro
Accademia Silvio d’Amico: giovani talenti crescono
Da tempo assistiamo incuriositi al rinnovato dinamismo dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Ritrovando lo smalto del suo fondatore, quel Silvio d’Amico che certo non mancava di entusiasmo e inventiva, l’Accademia romana si è aperta, in anni recenti, a proposte interessanti, che vanno dall’impatto visivo di una grafica rinnovata alla creazione di una vera e propria compagnia giovane.
La cosa notevole, comunque, è stato aprirsi sistematicamente a docenze illuminate e illuminanti di “esterni” che potessero dar man forte al serio e profondo lavoro quotidiano dei docenti interni. Tra i maestri chiamati a insegnare, dunque, svettano i nomi di Arturo Cirillo, Massimiliano Civica, Emma Dante, Monica Demuru, Thomas Ostermeier e molti altri. Forse anche per questo i saggi di fine anno – li seguivo sistematicamente in passato, erano spesso forieri di sorprese – diventano veri e propri spettacoli su cui riflettere, in cui attori professionisti si affiancano ai giovani della scuola o si mettono “a servizio” dei registi diplomandi.
È stato il caso di Filottete, diploma di regia di Carmelo Alù, già vincitore di premi nazionali, che va dunque ad aggiungersi ad alcuni “nomi” già segnalatisi e che fanno ben sperare per il futuro.
L’operazione di Alù è intrigante. Intanto si affida alla scrittura originale di una dramaturg d’eccellenza come Letizia Russo (con cui il regista ha già collaborato in passato), che rielabora l’originale sofocleo da par suo. E la visione registica accompagna e stimola la riscrittura: scarta l’ariosità immobile della tragedia e ne fa un dramma da camera, una vicenda oscura, chiusa nelle pareti strette dello storico teatrino di via Vittoria, nel cuore di Roma.
Al centro della scena (con la supervisione di un maestro come Dario Gessati) vi è un enorme lampadario, unico elemento scenografico che connota nella sua imponenza la dinamica claustrofobica dei personaggi. Che sono, a loro volta, ridotti a quattro, a un nocciolo duro che è simbolico, evocativo e innovativo. Filottete, Neottolemo, Odisseo si vedono affiancare una creatura altra e diversa, nuova: una ragazza, quasi uno spirito dell’isola di Lemno in cui il protagonista è stato abbandonato dai suoi compagni in partenza per la guerra di Troia. Neottolemo, il ferito, il virulento, nell’originale di Sofocle è abbandonato su una isola deserta: nella versione di Alù e Russo, invece, trova questa divinità femminea, questo genius loci, mutandosi in una sorta di Prospero con Ariel oppure Robinson con Venerdì.
Ci si chiede se la donna sia una sua emanazione, una proiezione (più volte è definita “la mano destra di Neottolemmo”), oppure sia un’interlocutrice reale, costante: e questa è la soluzione adottata dallo spettacolo. La qual cosa, come è prevedibile, sposta ulteriormente il piano emotivo della relazione tra i personaggi, introducendo tale quarto elemento che, oltretutto, sembra influenzare non poco lo scontro di potere che intercorre tra i tre guerrieri.
Cambia, e non è secondario, anche il vulnus, la ferita simbolica e fatale di Neottolemo: se per Sofocle era una ferita alla gamba, eternamente infetta e virulenta, qui è un “blocco”, oppure un “cancro” alla mano destra, proprio la mano con cui il famoso arciere deve scoccare le frecce inesorabili. Con buona intuizione scenica, quella ferita diventa “maschera”, dal momento che Neottolemo terrà sempre la destra guantata di nero attaccata al volto: la tara muta il sembiante, l’identità stessa del protagonista.
Ad interpretare Filottete è un attore eccellente, professionista di caratura internazionale, come Paolo Musio, tra i migliori della sua generazione: si mette a disposizione del disegno registico, e dà spessore e umanità frastornata al suo antieroe. È un combattente costretto all’inattività, è un uomo ormai rancoroso, reso livido dal dolore, dalla rabbia, dall’inattività. Di fronte a lui, appaiono ancora un po’ acerbi (e non poteva essere altrimenti) sia Alvise Camozzi, pur impegnato nel dare al suo Odisseo la rudezza e la sapienza del capo guerriero, che lo stesso Alù, che si ritaglia il ruolo di Neottolemo evocandone la sincerità e il conflitto interiore.
Ma a far da robusto contraltare a Filottete è invece la donna di Lemno, sua unica fonte di serenità: ad interpretarla una sorprendente Marina Occhionero, presenza intensissima, magnetica, brava nel tessere controscene, e nel gestire al meglio un tessuto verbale non facile.
È nella questione linguistica, infatti, che mi pare emerga, almeno per me, qualche perplessità. In un impianto rigoroso, asciutto, cupo, come quello creato e ben gestito dal regista, stonavano le (superflue) cadenze dialettali – il siciliano per Alù, il veneziano per Camozzi – così come a fatica ci siamo sintonizzati sulla lingua “inventata” parlata dall’autoctona, ossia la donna di Lemno. Una lingua che lì per lì suona come lo pseudo volgare parlato dal Brancaleone di Gassman nel celebre film. Poi, merito anche di Occhionero, ci si abitua, ma lo stridio iniziale è forte. Magari, con un passo in più, la frattura linguistica e lessicale poteva diventare un elemento drammatico più forte. Ma chissà: è facile dirlo, stando seduto in platea!
Di fatto, però, ci siamo trovati di fronte a uno spettacolo di ottima fattura: le supervisioni alle luci di Pasquale Mari, ai costumi di Gianluca Falaschi, e ai movimenti da Francesco Manetti, hanno contribuito certo nel dare ulteriore compattezza alla proposta, ma di fatto questo Filottete ci segnala un giovane regista che sa il fatto suo, da seguire in futuro.
Per essere un saggio d’Accademia, direi niente male.
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