Teatro

“Testimonianze”, i Mascareddas e il butoh conquistano Genova

25 Novembre 2023

L’ultimo refolo di vento fugge via assieme alla luce di un riflettore che fino ad allora aveva frugato ogni angolo di una landa desolata, terra sfregiata e resa brulla dalla guerra e i cui giorni si sono da poco allontanati e perduti. Panchine, sedie, porte e finestre nel quartiere di una città allo stremo che, dopo la tempesta, vuole ritrovare se stessa. Dieci personaggi, dieci vite vissute alla ricerca di un senso ai giorni che sembrano passare eguali, uno dopo l’altro. E’ “Venti contrari”, regia di Karin Koller, spettacolo de Is Mascareddas, maestri del teatro di figura, approdati per la prima volta a Genova, alla quattordicesima edizione di “Testimonianze”, il festival di Akropolis teatro diretto da Clemente Tafuri e David Beronio, con un capolavoro accolto entusiasticamente -con applausi e numerose chiamate sul proscenio- da un pubblico folto e partecipe conquistato da un modo di fare teatro che avvicina la sperimentazione all’arte popolare. Forma e struttura narrativa non facile e, certamente in Italia, poco conosciuta al di là di quelle tecniche -dal guanto al filo e manipolazione a vista- che pure Is Mascareddas praticano assai bene come partenza per esplorazioni e soluzioni drammaturgiche. Vicine e talvolta coincidenti con il meglio della scena contemporanea.

Donatella Pau e Claudia Dettori de Is Mascareddas in “Venti Contrari” al festival “Testimonianze”  (Foto Lorenzo Crosetto)

All’interno di un esteso quadrato circondato dai tre lati dal pubblico, due teatranti, Donatella Pau (fondatrice della compagnia assieme a Tonino Murru) e Claudia Dettori agiscono, manovrando a vista. Questione di attimi e poi le artiste sembrano completamente inghiottite dal buio lasciando il posto a una obliqua cantata: una spuria Antologia di Spoon River fatta di sopravvissuti. Pupazzi che esorcizzano la vita. L’ispirazione è giunta a Is Mascareddas direttamente dall’arte artigianale di due sorelle di Cagliari, Albina e Giuseppina Cotroneo, amate per la loro opera da designer famosi come Giò Ponti o Eugenio Tavolara. Figure costruite in tessuto dai colori tenui, soprattutto grigie e marron. Stracci e filo. Semplici e dall’allure beckettiano senza parlare i manichini di pezza raccontano la sopravvivenza alla guerra. Ai bombardamenti a tappeto -a Cagliari particolarmente cruenti delle fortezze volanti anglo americane- che radevano al suolo, case, palazzi cancellando la geografia della città. I volti sono tristi e segnati da chi, guardando la morte in faccia ha visto scomparire amici e persone care.

Donatella Pau de Is Mascareddas nella scena dello spettacolo “Venti contrari”, regia di Karin Koller (Foto Marco Diaz)

Sfuggiti per un pelo dall’inferno e tornati nonostante tutto a vivere. Una coppia, un uomo e una donna litiga e poi si ritrova, il folle del quartiere dalla camminata sbilenca lancia motti e provoca ilarità, una madre ha perso la figlia, uno strozzino si nasconde dietro il portone, eppure vorrebbe i favori della prostituta che non si concede e, questa invece, come un’ape vola da un luogo all’altro curiosa di sapere quello che accade di nuovo lucidando di continuo le scarpe con un panno di lana rossa. Una marionetta appesa dondola nel vuoto, testimone del mondo di sopra e quello di sotto. Scampoli di umanità fotografati al bivio, campionario di voci che ogni tanto emergono come nubi passeggere assieme alle sonorità musicali oscure di Tomasella Calvisi. Figurine ferite nell’anima girano in tondo, sorprese dal loro stesso sopravvivere.

Donatella Pau de Is Mascareddas manovra un pupazzo di “Venti contrari” a Genova (Foto Lorenzo Crovetto)

E’ nel secondo dopoguerra che nasce anche il butoh giapponese. Una forma particolare di teatro danza che agisce contestualmente ai movimenti pacifisti nati in quel Paese messo in ginocchio dalle due atomiche americane di Nagasaki e Hiroshima. I primi performer e fondatori pionieri del movimento come Hijikata Tatsumi e Kazuo Ohno si impegnano a togliere dalla scena le influenze della cultura occidentale. La loro arte si concentra su una ricerca rigorosa del proprio corpo: danza che lavora sulle tenebre e ricerca la luce. Questa è almeno la storia di partenza per un genere che lungo la sua vita, dai Cinquanta ad oggi, ha espresso importanti artisti come il geniale Misaka Iwana, scomparso di recente, che nel 2011 in occasione di una classe di butoh a Sofia, rivolgendosi ai propri studenti “digiuni” del suo approccio spiegava in poche parole che “Il mio pensiero e il mio lavoro non sono niente di speciale. Piuttosto sono entrambi naturali”. Cioè non è solo un “paesaggio esteriore fatto di fiume, montagne, foreste ma quello che dimora nell’animo umano”. La danza quindi potrebbe essere definita come un mezzo per realizzare questo paesaggio interiore. Una idea molto originale e personale del butoh, movimento artistico a cui “Testimonianze” ogni anno riserva una generosa e approfondita attenzione. Dello stesso Iwana il festival ha mostrato il potente e poetico film “A Summer Family”, con l’introduzione a cura di Moeno Wakamatsu e Samantha Marenzi.

Nel backstage del film “A Summer Family” di Masaki Iwana (Foto archivi La Maison d Butoh Blanc)

Per la parte spettacolare, allestita nella prestigiosa Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale di Genova, ad aprire è stata una danzatrice italiana di celebrato rigore, Alessandra Cristiani, da diverso tempo unica stella del butoh made in Italy, autrice e interprete di coreografie dai decisi rapporti con l’arte visuale, esecuzioni tecnicamente ineccepibili in cui la danzatrice si mette in gioco generosamente con dispendio di energia. In questa occasione la performer romana presenta un sorprendente “Lingua, da Claude Cahun” parte di una trilogia aperta da “Matrice” omaggio alla figura di Ana Mendieta artista di origine cubana, performer di body art e land art, tra le prime figure femminili latino americane ad imporsi a livello internazionale. In questa seconda tappa l’allieva di Masaki Iwana sembra ulteriormente spostarsi in inediti territori, quasi una inevitabile evoluzione dopo anni di ricerca filosofica e rispetto del butoh delle origini, la cui tecnica appare oggi un utile strumento per sondare meglio i cambiamenti (del corpo e del tempo). Tradimento necessario in cui gli insegnamenti appresi dai maestri illuminano meglio il migrare.Stavolta è la figura di una semisconosciuta fotografa, tra le prime ad esplorare le possibilità della performing art come Claude Cahun della quale ancora non esiste una ordinata biografia.

Alessandra Cristiani al festival di Genova nel primo tempo di “Lingua, da Claude Cahun” (foto di Lorenzo Crovetto)

Nata a Nantes nel 1894 (il suo vero nome è Lucy Renée Mathilde Schwob ), pratica con la fotografia il cosidetto “Camuflage” modificando sempre la propria immagine, parte di un lavoro di sperimentazione per la giovanissima arte fotografica. Sono degli Anni Venti gli autoscatti in cui esibisce disegni e scritte su parte del corpo o sugli abiti stessi. Artista di trasformazioni in tempo reale Cahun, è lei stessa oggetto della fotografia e autrice dello scatto. Vicina al movimento surrealista con la sua amata compagna di vita, Suzanne Malherbe, ribattezzata Marcel Moore, vive nella Parigi ruggente tra gli anni Venti e la fine dei Trenta, frequentando i circoli di avanguardia, gli artisti e intellettuali di spicco del periodo da Tristan Tzara a Man Ray, da George Bataille e Andrè Breton. Partecipa alla resistenza e viene arrestata dai nazisti che la condannano assieme alla compagna per lesbismo. Scompare nel 1954 dopo aver scoperto che la sua casa nell’isola di Jersey era stata saccheggiata e le sue opere disperse. Lascia a futura memoria e per le artiste donne che verranno una forte indicazione di libertà. I suoi autoritratti, una costante nella sua vita, segnano il tempo dei cambiamenti e le trasformazioni del corpo. Sono il racconto autentico, mosso, fluido di una sessualità e una personalità fuori dal comune. Ed è a questo parlare con il corpo che Cristiani, nel corso di un’azione divisa in due, si è voluta riferire poeticamente. La prima, quasi a segnare il recente passato il punto di partenza vede l’immagine del corpo nudo dell’artista vista di spalle, immobile. A lungo. La massa di riccioli rossi ricade disordinatamente sul corpo, luogo di prossimo incendio. Inizia qui una marcia di progressivo cambiamento. Pennarello nero alla mano la danzatrice inizia a scrivere sul proprio corpo, invitando volta per volta uno spettatore a lasciare “l’impronta” scritta sulla sua schiena. Si rovescia il punto di vista, Quasi ci fosse stato un ribaltamento di prospettiva, la danzatrice ora è dietro il pubblico, protagonista di una lunga, sinuosa ed energica danza del cambiamento, sui segni sonori di Ivan Macera e le luci nette di Gianni Staropoli dove Alessandra Cristiani dona se stessa, come sempre e fino alla fine, con la stessa inalterata, intensa energia.

Alessandra Cristiani nel secondo tempo dello spettacolo butoh “Lingua da Claude Cahun” (foto di Lorenzo Crovetto)

Chi dei maestri si è liberato da un bel po’ è la giapponese Yuko Kaseki. Con salde basi a Berlino dove ha costituito la sua compagnia Cokaseki con la quale alterna le produzioni con i numerosi solo. Lo sguardo di Kaseki sul mondo, ma non solo su quello, la differenza di genere, l’arte e l’energia, la comunicazione e la poesia sono il centro hardcore di questa straordinaria danzatrice, performer, ma anche coreografa e regista che nel suo lavoro, spazzando via ogni ambiguità, esprime forza e voglia di trasparenza non comuni. Yuko è diretta e senza inganni perché è una vera sperimentatrice che si mette in gioco in prima persona. Minuta di corpo, un caschetto giallo oro con la frangia che le illumina il volto, due occhi dolcissimi che pure esprimono tenacia e forza. Nella performance mostrata a Genova, sempre nella magnifica sala di Palazzo Ducale, “9 steps to the dust”, cioè “9 passi alla polvere”, c’è una sintesi perfetta del suo butoh. Tecnicamente perfetto alla base, quanto dirompente nel divenire. Yuko rompe gli schemi. Quando si pensa di prevedere il passo successivo della sua azione è esattamente dall’altra parte. Nulla è scontato e tutto quindi può essere messo in discussione, una volta tracciato il sentiero. A tal punto da suonare la carica e mettere l’indice su credenze e dogmi, luoghi comuni e tradizioni centenarie e apparentemente intoccabili, molte delle quali discendono da un patriarcato che tiene le donne relegate, lontane dalle stanze del potere, oggetti da carezzare e usare per il proprio piacere. Altro che geisha! Yuko è implacabile. Disegna con poche azioni di danza, rapide e intense come dei veloci tratti di china che scivolano su carta o su seta nei “kakejiku”, dipinti essenziali o calligrafie che finiscono su rotoli da appendere. O, ancora, simili al “sumi”, l’inchiostro nero che, diluito con l’acqua si esprime in tutte le possibili variazioni e sfumature.

La danzatrice di butoh giapponese Yuko Kaseki  mentre danza nella coreografia “9 steps to must” (foto Marco Diaz)

Le “pennellate” di danza di Kaseki, sono così nette, senza sbavature, precise e taglienti come una lama affilata. Forza anche del butoh che fa emergere le consapevolezze come i segreti nascosti nel profondo del corpo. La gestualità e le figure danzanti traducono così gli umori esterni, la natura che ci circonda, tutti i suoi numerosi strati. Tra la vita e la morte. Yuko Kazeki dice che “come esseri viventi siamo nati per vivere verso la morte e il butoh imprime la nostra debolezza, la nostra fragilità e intensità sui nostri corpi”. Ma aggiunge che “tuttavia, noi non possiamo vedere la nostra stessa morte”. Ed è proprio ragionando sugli ultimi attimi della vita che l’artista si è imbattuta nei “kusoku”, “rappresentazioni grafiche dei nove stadi che attraversa un cadavere in decomposizione, una serie di dipinti contemplativi buddisti”. L’opera in questione raffigurava una donna bella e nobile, usata in questo caso come metafora della caducità del vivere. “Scioccante vedere l’opera che raffigurava un cadavere in putrefazione esposte nei campi” afferma Kaseki che indica come siano finalizzate alla visione dei giovani monaci per “distruggere i propri tormenti inferiori, dai desideri sessuali alla bramosia della vita”. In questo caso, la figura della donna viene usata in modo unilaterale, trasformata in “un passatempo religioso”. Corollario al fatto che le donne da sempre sono considerate tabù. E perchè invece non usare i corpi dei giovani monaci? O quello dei vecchi?

Un altro momento della performance “9 steps to the dust” della giapponese Yuko Kaseki (foto Lorenzo Crovetto)

Perchè, sostiene l’artista butoh è un “sistema religioso degli uomini per gli uomini”, Davanti a tutto questo la danzatrice si sente “profondamente toccata”e e non riusciva a scrollare di dosso la “sensazione di disagio”. Lì dice ancora “sono iniziati i miei nove passi verso la polvere”. Sono quelli di una danza che racconta la mercificazione del corpo femminile, la rabbia e il disappunto ma pone anche delle questioni di carattere filosofico . “Che tipo di trasformazione interiore si genera? “Per una danzatrice che espone il proprio corpo, ogni azione è anche un approccio alla propria morte… Ogni attimo è vivere e morire. Esistono le emozioni in quella trasformazione? Cos’è il desiderio? Ci sono passioni?” Più si indaga sulla morte e maggiormente spunta la vita. E “per le donne invecchiare è ancora più gravoso”. In un sistema patriarcale le donne che invecchiano sono considerate improduttive e inutili. Qualche politico giapponese è arrivato a sostenere persino che le pensioni non dovrebbero andare a donne senza figli.

“Come donna che non ne ha mai avuti -dice Yuko– preferirei piuttosto far nascere un pianeta. Il pianeta continuerà a ruotare, espandersi in universo illusorio”.

E’ una danza pregnante di idee quella di Kaseki, solleva interrogativi, invita i maschi a guardarsi dentro. Una lotta con l’oscurità, ad ogni ritorno della luce si scopre un’altra figura, un altro inedito punto di vista. E’ un procedere a zig zag con movimenti che sembrano tagliare il cielo esplorando lo spazio circostante dove a tratti, e all’improvviso, la danzatrice sembra di colpo scomparire.

Un primo piano della coreografa e danzatrice giapponese Yuko Kaseki  al festival “Testimonianze”  (foto Lorenzo Crovetto)

Sensazione simile che lascia verso il finale anche “Apocatastasi”, folgorante pezzo del Teatro Akropolis, con la regia di Clemente Tafuri e David Beronio con Roberta Campi e Giulia Franzone accompagnate dalla musica originale di Pietro Borgonovo eseguita dal Mademi quartet. Sono quaranta ipnotici minuti presentati in prima visione la scorsa edizione. Una danza dell’Ade, in un imprecisato non luogo sospeso nel tempo che al suo rivelarsi è già dissolto. Un’azione impossibile che può “accadere solo laddove ciò che resta del tempo impedisce a ogni gesto di trovare un suo senso e una sua fine”.

Nella seconda parte della rassegna, come è ormai storia di questo festival, si registra la consueta apertura a giovani artisti che qui trovano asilo in residenza per continuare a cercare la propria strada. Come Carlo Massari che puntualmente ha presentato un altro breve pezzo delle sue “Metamorphosis”. Stavolta è un airone cenerino evocato nell’azione del danzatore solitamente pieno di energia e di grande movimento , stavolta invece per buona parte della performance seduto in una sedia dove porta gli spettatori sul confine labile tra uomo e animale, con dispendio di piume che vengono fuori all’improvviso… Massari dice che “la bestia nel cuore è forse l’esplosione di cui abbiamo davvero bisogno per sentirci ancora vivi”. Acrobazie , suoni equilibrismi e abilità da jongleurs ha mostrato il trio francese Tanmis in “Hic” nello spazio che “Testimonianze” dedica ormai da alcuni anni al circo contemporaneo, diventato un punto di riferimento a cui attingere da parte di qualche gruppo teatrale.

I momenti iniziali di “Apocatastasi”, spettacolo del Teatro Akropolis (Foto Lorenzo Crovetto)

Festival caleidoscopico, per eccellenza, la rassegna di Akropolis ogni anno accentua i propri interessi in direzione non solo spettacolare, ma anche filosofica e ora anche cinematografica, o meglio quel cinema sperimentale che è molto vicino al teatro. Così in una serata sono stati proposti per “La parte maledetta” di Tafuri e Beronio il film su Carlo Sini, filosofo presente anche in collegamento il pomeriggio del 17 novembre a parlare di musica con Florinda Cambria e Pietro Borgonovo. A seguire “First and Second Clown” lavoro dedicato al linguaggio, la letteralità, l’etimologia e il ritmo delle parole in Shakespeare. Subito dopo è stato proiettato “Phantasmata”, materiale video che utilizza partiture coreografiche legate al progetto “Jump”. Le regie sono di Vincenzo Schino (Opera Bianco).

Molto interessante il filmato di Davide Palella “Sonnerstube” (Locarno 2022) in cui si racconta di Sergio Cortesi che ha dedicato tutta la sua vita all’osservazione del Sole, Alla Specola Solare di Locarno dal 1957 al 2021 ha realizzato oltre quindicimila disegni delle macchie solari “mosso dalla fede di un monaco al quale il proprio di non ha mai dato risposte”.

Il danzatore Carlo Massari in “Metamorphosis”  parte di una trilogia sul rapporto uomo-animale (foto di Lorenzo Crovetto)

Chiusura nel segno del teatro di figura con Claudio Montagna che ha presentato “Modafferi” e “Tarzan” e infine Giorgio Brunello con “Beati i perseguitati a causa della giustizia perchè di essi è il regno dei cieli”, regia di Gyulia Molnar.

Di forte attrazione anche il programma della prima parte, molto orientata verso la danza contemporanea con gli spettacoli di Nicola Galli, “Il mondo altrove: una storia notturna”, Das Ding/Giampino Guratti in “The Red Thing”, Vincent Giampino in “Giselle”, Paola Bianchi con la sua ultima creazione “Fabrica 16100”, Giovanna Velardi in “I broke the ice and saw the eclipse”, e “Autobiografia” e Parini Secondo in “Speeed”‘. Per il circo ArteMakia in “Klinke”. Per il teatro lo stesso Teatro Akropolis a Sestri Ponente ha proposto una chiamata pubblica per cittadinanza e scuole del territorio per la riuscita performance “Il cammino di Ercole”. Masque Teatro ha presentato la sua ultima fatica: “Voodoo” con Eleonora Sedioli, ideazione di Lorenzo Bazzocchi e infine Marco Martinelli del Teatro delle Albe in “Coro”.

Un momento dello spettacolo “Hic” della compagnia di circo contemporaneo Tanmis (foto di Lorenzo Crovetto)
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