Teatro

A Sarajevo il teatro fa i conti con la memoria

4 Ottobre 2015

Sarajevo ci accoglie al suo meglio. Un sole caldo, di una prolungata estate, e il cielo terso a illuminare le moschee, le chiese, la sinagoga e le colline tutto intorno. La città si è data da fare: alberghi ovunque, carovane di turisti per le viuzze del centro storico. Sono tanti i percorsi che offre, e piuttosto insoliti: si può seguire quello legato al celebre attentato a Franz Ferdinand, lungo la sponda destra del fiume, evocando l’eroico Gavrilo Princip e l’inizio della Prima Guerra.

Sarajevo, il ponte Latino
Sarajevo, il ponte Latino

Oppure si possono ritrovare le tracce ben più recenti del terribile assedio degli anni Novanta: scorgere i buchi dei proiettili ancora aperti nelle facciate delle case, magari rattoppati alla meglio; o andare al mercato della frutta e ripensare a quella granata che fece strage tra la gente in fila per accaparrarsi un po’ di cibo. O ancora entrare nella bellissima Biblioteca Nazionale, finalmente ricostruita, che fu bombardata e distrutta in una notte, assieme a 2 milioni di libri bruciati. Vi ricorderete quella famosa immagine del violoncellista che suona tra le macerie? Oggi in quelle sale risplende la luce del sole attraverso i vetri lavorati ad arte: è un museo, non ci sono più i libri, ma questo imponente edificio è un monumento alla memoria.

La Biblioteca Nazionale restaurata
La Biblioteca Nazionale restaurata

Di fatto, il bisogno di ricordare, e di capire, non ha abbandonato gli abitanti di questa splendida città. Mentre noi, a poche centinaia di chilometri di distanza, guardavano beati in tv le Olimpiadi di Barcellona del 1992, di qua dal mare sparavano in ogni angolo: i cecchini, la fame, la paura, l’eterna attesa di un Godot-Nato che non arrivava mai…

Sarajevo è segnata da questa memoria, eppure la vita è andata avanti: il teatro, il cinema, la voglia di resistere non è passata. Così, ad esempio, il prestigioso Festival MESS, che ci ospita, giunge quest’anno alla 55esima edizione. E l’apertura della manifestazione è stata folgorante per qualità e intensità. I primi due giorni hanno visto in cartellone spettacoli di altissimo livello – tra i selezionatori anche l’italiano Giorgio Ursini Ursich – in un programma che si preannuncia davvero interessante (ne darò conto anche più avanti) proposto a un pubblico vario, attento, partecipe.

La prima serata è stata appannaggio della Schaubühne di Berlino, con un capolavoro intitolato The forbidden zone, con la magistrale regia di Katie Mitchell su testo di Duncan MacMillian.

Lo spettacolo è un miracolo di tecnologia, narrazione, interpretazione: veniva da pensare all’indimenticabile Ultimi giorni dell’Umanità con la regia di Ronconi. La vicenda, qua, si svolge su un vagone di una metro di Chicago, nel 1945, ma i piani narrativi scorrono veloci in multipli flashback, spaziando dal fronte francese del Primo conflitto allo studio e casa di Clara Immerwhar, moglie dello scienziato Fritz Haber che nel 1915 diede il via agli esperimenti sui gas e le armi chimiche ad uso militare. La Immerwhar, assolutamente contraria a far uso delle scoperte scientifiche per fare armi di sterminio di massa, in segno di protesta si tolse la vita. La protagonista è la nipote Claire: la seguiamo nel suo ultimo viaggio verso l’annunciato suicidio. Mentre si diffonde la notizia dell’uso dello Zyklon B nei campi di sterminio tedeschi,  lei sta finalmente per scoprire un antidoto, ma il governo Usa decide di finanziare la ricerca sul nucleare, abbandonando quella sulle armi chimiche. È il suo fallimento, la sua disperazione: lo Zyklon è nato dagli studi del suo progenitore.

The Forbidden zone
The Forbidden zone

Al di là della trama, pur avvincente, quel che affascina di questo imponente lavoro è il magistrale uso dei video – almeno otto telecamere –  che seguono i protagonisti fin nei dettagli, attivando una (meta)narrazione cinematografica che spiega e amplifica, concorrendo drammaturgicamente in modo perfetto allo sviluppo della storia. Ma non solo: quel che appaga è l’interpretazione degli attori, mirabili nel condividere tensione e livello emotivo da primi piani cinematografici e presenza scenica. Tutto è live, qui, e tutto funziona millimetricamente, ovviamente anche grazie all’agilità e alla sapienza dei videomaker. Infine, vi è un senso profondo, nemmeno troppo celato: ossia una riflessione sul “principio femminile del diritto”, quella visione del mondo antagonista – da Antigone in poi – tutta dalla parte di “lei”, impregnata di valori altri rispetto all’ottusa e violenta visione maschile. La guerra è “maschia”, inutilmente virile, aspramente gretta: sta alle donne fermare i conflitti, dare una visione altra e possibile dell’esistenza, indicare strade diverse. Purtroppo però, ci dice la Mitchell, queste antieroine sono destinate al fallimento, almeno nel “secolo breve”: chissà se nel futuro qualcosa potrà cambiare. Dopo il trionfo di Sarajevo, sarebbe bello vedere questo spettacolo anche in Italia (meritoriamente tra i coproduttori anche Emilia Romagna Teatro) in modo da conoscere un po’ meglio la straordinaria Katie Mitchell, da noi ancora poco presente.

Matija Ferlin in Sad Sam Lucky
Matija Ferlin in Sad Sam Lucky

Altra sorpresa del Festival Mess è il curiosissimo lavoro di Matija Ferlin, classe 1982, di Pula. Sospeso tra mologo teatrale, assolo di danza, cabaret metafisico, performance e body art, il suo Sad Sam Lucky è un dissacrante gioco all’automassacro, una comica in cui il protagonista diffama se stesso, svela ironicamente i meccanismi dell’impianto narrativo adoperando fogli tratti da una risma A4 in cui sembrano esserci scritte le “istruzioni per l’uso”. Solo con un tavolo in scena, e polvere di carbone che annerisce le mani, Ferlin tiene la tensione egregiamente: qualche eccesso, qualche insistenza, non inficiano uno spettacolo di grande interesse. Insomma, un nome da seguire anche in futuro.

Da segnalare, infine, lo struggente e doloroso Common Ground, diretto da Yael Ronen per il Maxim Gorki Theater. Raccogliendo biografie di ragazzi che erano bambini durante il conflitto balcanico – bosniaci, serbi, o “semplicemente” jugoslavi – salvatisi perché emigrati a Berlino, Ronen tesse una partitura scenica in cui storie private e fatti pubblici si intrecciano. Gli otto perfomer si contendono l’unico microfono piazzato in proscenio, in uno spazio in cui si accumulano casse di legno che possono diventare tutto. Sul fondo, in un megaschermo, proiezioni d’archivio o d’attualità. Le storie – non importa, alla fine, se siano autenticamente dei performer, ma forse lo sono – sono agghiaccianti, strazianti: destini che si incrociano tra le atrocità e che riemergono in un viaggio della compagnia a Sarajevo e nel piccolo paese di Prijedor.

Common Ground, foto di Thomas Aurin
Common Ground, foto di Thomas Aurin

A ripercorre gli anni Novanta – come fanno i performer a inizio spettacolo, buttando là una serie di date, eventi, occasioni, conflitti, cataclismi, compleanni, incontri, lutti – ne esce un quadro disperante. E loro, figli e nipoti di quelle violenze, devono ma forse non vogliono fare i conti con il passato, proprio e collettivo. Lo spettacolo ha momenti davvero insopportabili, strazianti: mi meraviglio di come il pubblico di Sarajevo abbia retto a simili feroci racconti. Nel silenzio della platea del bel teatro ottocentesco, si sentivano singhiozzi commossi. Come poteva essere altrimenti?

In questa prospettiva, anche il finale – smaccatamente consolatorio e buonista – appariva necessario per una “catarsi”: altrimenti Common Ground sarebbe davvero stato insopportabilmente aspro. La responsabilità dei padri e dei figli, la responsabilità dei popoli interi, l’assurdo “nazionalismo” come elemento scatenante la violenza, le morti, la vendetta e il senso di colpa: c’è tutto questo e molto altro nei racconti dei giovani interpreti. Con una nota dolente: «fino a che tutti i criminali di guerra non saranno puniti, la guerra continuerà nelle teste delle persone». È davvero così? Yael Ronen sembra dire che no, sembra sperare che la nuova generazione abbia altre possibilità e altre speranze. Ma il passato, quel passato lì, non si cancella e a Sarajevo lo sanno bene.

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