Teatro
A Roma “Miseria e Nobiltà” di Sinisi e altre divertenti amenità
Ci prepariamo al Natale nel segno di Spelacchio, il povero albero assunto suo malgrado a simbolo di stagione. Illuminato come il cavaliere elettrico di Robert Redford, il fu abete sembra un salice piangente. Ma è anche bello così, con un certo gusto decadente e blasé, quasi Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia, con il trucco che cola sotto il cappello di paglia: sta là, moribondo, in attesa di chiudere gli occhi, inseguendo il suo sogno di bellezza.
Intanto, però, mentre al Teatro di Roma sbarca la ripresa di Ragazzi di Vita, forse non proprio natalizio, ma certo gran lavoro, le scene romane si danno un tocco di brio e ospitano spettacoli divertenti, curiosi, coinvolgenti.
Tre di questi li ho amati molto, e sono felice di segnalarli al pubblico. Allora in queste sere futili di panettoni e finte allegrie, tanto vale andare a teatro, a cercar talenti comici veri, la commedia come si deve, quei testi che fanno ridere, sì, ma magari nascondendo una lacrimuccia di tenerezza o un pensiero di amarezza. Commedie che raccontano la vita, che sono la vita. Andateci, non ve ne pentirete.
Il primo lavoro da segnalare, al Teatro Eliseo, è Magic People Show, nella sua versione “New”, creato da Teatri Uniti nell’ormai lontano 2007 – quasi lo tenni a battesimo, per gli strani casi della vita. Quattro attori formidabili (Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Andrea Renzi e Luciano Saltarelli) un testo travolgente di Giuseppe Montesano, per una commedia scura come la pece. Io ci tornerò, lo rivedo stravolentieri.
Il secondo è Generazione Disagio. Freschissima proposta di un giovane gruppo al nuovo Teatro Off Off ed è il grottesco racconto di un manipolo di eroi: sono i sopravvissuti a questi tempi grami, ossia precari, disoccupati, eterni studenti che si giocano la vita in una eterna lotteria esistenziale. Feroce e coinvolgente, caustico e intelligente. Tenderei a non tornarci, solo perché l’ho visto già due volte, ma non sono tanto convinto.
Il terzo, infine, è una bella edizione “popolare” e “pop” di Miseria e Nobiltà, il classico di Scarpetta che il coraggioso attore e regista Michele Sinisi affronta da par suo. Debutta il 26, andateci, al Teatro Vascello, e io mi sono già prenotato per rivederlo .
Ecco, allora, quel che scrissi a proposito dello spettacolo, nel 2015, al suo debutto milanese. Il titolo del pezzo era dedicato alla Farsa.
Quanto è difficile la farsa! E quanto è raro vederla ben fatta sulle scene italiane!
Sarà perché ormai è diventata appannaggio esclusivo della politica nazionale, che campa e fa campare guitti che nemmeno alla D’Origlia-Palmi se ne vedevano. Farse e farsacce quotidiane invadono dal piccolo schermo, divampano sui giornali, rimbalzano addirittura all’estero che neppure il Nerone di Petrolini sarebbe stato capace di scriverne. Che se poi la farsa la indossano i nostri politici, a mo’ di canovaccio, noi, intanto, siamo diventati tutti seriosi e nervosi, e rischiamo di perdere la voglia di sorridere. Sarà, poi, che ormai il “comico” è diventato siparietto tv, con quei tre o quattro imitatori e caratteristi che non fanno ridere, ma di fatto il termine “farsa” è scomparso o quasi dalle tavole del palcoscenico per diventare termine d’uso comune, addirittura quotidiano, a contrassegnare situazioni che più che farsesche son grottesche.
Le belle, vecchie, gentili, farse di una volta non si vedono più. E invece a me quanto piacciono!
Va detto, poi, che sono difficili quei testi: apparentemente labili, sono “meccanismi” perfetti,che necessitano di ritmo, spensieratezza, capacità di gestire incastri e situazioni improbabili. La farsa, diretta discendente della Commedia dell’Arte, marchingegno inesorabile per smascherare le brutture del convivere (a)sociale, ha assunto toni feroci nel novecento, declinata come dissacrante contrappunto comico al mondo sublime e retorico del teatro borghese. Dunque con piacerissimo salutiamo, in questa fine anno, il ritorno in scena di due testi emblematici della storia della farsa. Il primo è Miseria e Nobiltà, scritto a fine ottocento da Edoardo Scarpetta, più volte ripreso, anche al cinema da Mario Mattoli con Totò, Dolores Palumbo, Enzo Turco, Sophia Loren e Valeria Moriconi. Il secondo è L’albergo del libero scambio, scritta da George Feydeau poco dopo Miseria e Nobiltà, nella Parigi del 1894, quando la farsa scivolava già nel vaudeville.
Partiamo allora da Scarpetta, rimesso in scena, con un’operazione intelligentissima e divertentissima, dal bravo Michele Sinisi alla Sala Fontana di Milano, con arguta produzione Elsinor. La vicenda la conoscete tutti, non fosse altro per quel travolgente film, con Totò che si mette gli spaghetti in tasca, eccetera eccetera: la pellicola è entrata nell’immaginario collettivo, è addirittura matrice, aurorale o archetipale, di declinazioni comiche successive in forma di citazione o parodie.
Sinisi affronta coraggiosamente il precedente vincolante, lo aggira – complice la ottima drammaturgia di Francesco M. Asselta – declinando il testo in una miriade di dialetti italiani, salvaguardando, però, il primato del pugliese madrelingua (di Sinisi, non della commedia che era tutta pregnatamente partenopea).
C’è il romagnolo, l’abruzzese, un napoletano appena accennato, il milanese: una babele linguistica che da un lato riconferma la matrice terrigna – dialettale appunto – della lingua scarpettiana, aggiornandola sornionamente all’oggi; dall’altro suggerisce un piano diverso di interpretazione. Se, infatti, l’elemento della “fame”, ossia la povertà diffusa quanto mai attuale, è appannaggio di chi con la propria terra ha ancora un legame (semantico) forte; dall’altro si può dire, seguendo Sinisi, che quella farsa, quella storia, è talmente consustanziale all’essere italiani che si può sfaccettare in lingue diverse mantenendo comunque immutata la carica empatica ed emotiva. Insomma, il “paltò di Napoleone” fa ancora ridere, che sia a Napoli, a Bari, a Milano o a Rimini.
Così è per la celebre scena della lettera. Nell’originale filmico è il noto “caro Vincenzo compare nepote”, che il villico detta a Totò. Qui Sinisi la nega e la evoca, in una fragorosa mise en abyme, attraverso le simili e successive scene di Benigni-Troisi o di Totò, Peppino e la malafemmina. Ma, si diceva, è l’operazione nell’insieme a essere scintillante.
Michele Sinisi, da bravo regista, si ritaglia un ruolo apparentemente marginale, quello di Peppiniello: lo fa parlare in un andriese incomprensibile e duro come un macigno e soprattutto gli dà il ruolo di sguardo “esterno”, di testimone e servo di scena, ma anche di artefice kantoriano della farsa che si monta in scena. Peppiniello-Sinisi osserva sorridendo incantato dal proscenio, a volte interviene – giocando con una botola/luce che cambia i connotati alla scena – entra ed esce dalla sequenza teatrale, svelando momenti di cruda verità, lividi come frustate. Eppure si tiene quel tono leggero, divertente, commovente. Merito del cast, straordinario in ogni componente, in cui spicca specialmente Ciro Masella, da ricordare, che si destreggia ottimamente in coppia comica con un validissimo Gianni D’Addario.
Poi la potente e trascinante Diletta Acquaviva; Giulia Eugeni, ballerina mejercholdiana, e ancora Stefano Braschi, Gianluca Delle Fontane, Francesca Gabucci, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster.
Non mancano invenzioni che risolvono la scena egregiamente (scenografia di Federico Biancalani), come quel mare di maccheroni giganti che si riversano sul palco, e nei quali si tufferanno i protagonisti.
La scelta del finale è significativa: “fateci giocare”, “non ci rovinate la festa”, sembra dire il gruppo; fateci ancora sognare e commuovere con queste storie semplici e eternamente magiche. Che è un invito alla vita, ma anche ad un teatro popolare, condivisibile, immediato, fantasioso nella sua semplicità. Un teatro pronto a tornare nella abituale, quotidiana, e sempre più inaccettabile “miseria”, dopo aver fatto felice il pubblico.
Questo spettacolo è uno strappo significativo al modo di affrontare certi testi, è una idea robusta che si tramuta in sapiente invenzione scenica, è un gioco travolgente per ritmo e intensità. È un segnale, positivo, per il futuro: ridare senso profondo alla tradizione, inverandola nel nostro presente.
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