Teatro
A Reggio Emilia inseguendo i giovani argonauti
Arrivando da Roma, la prima cosa che si nota a Reggio Emilia, è la pulizia delle strade. I “cassonetti”, in particolare, fanno quasi commozione: un altro mondo è possibile, vien da pensare. Una bella città, viva, leggera, animata: naturalmente ci saranno problemi anche a Reggio, ma così, a un primo colpo d’occhio, non è che si vedano tanto…
Ci sono arrivato per assistere a un piccolo, generoso evento organizzato da Il Teatro Dell’Orsa, ovvero Monica Morini, Bernardino Bonzani e Annamaria Gozzi, affiancati da un cast artistico di tutto rispetto e soprattutto da una ciurma di adolescenti o giovanissimi attori e attrici di sette nazionalità diverse.
Argonauti, questo il tema, il filo conduttore, il titolo di uno spettacolo itinerante che ha attraversato Reggio Emilia, partendo dal giardino accanto allo storico Teatro Valli. Nato per capitoli successivi (cominciati nel giugno scorso), lo spettacolo del Teatro dell’Orsa è un progetto articolato, radicato, che ha avuto il meritato riconoscimento del Mibact nell’ambito del bando nazionale Migrarti.
Argonauti, dunque, ancora una volta. Tempo fa avevo scritto di un altro allestimento, sempre in forma corale e multietnica, fatto a Matera dalla Non-Scuola del Teatro delle Albe.
Evidentemente il racconto mitico della nave Argo, dei suoi eroi che attraversano il mare, della ardua ricerca del vello d’oro è metafora pregnante per capire e raccontare i flussi migratori, i viaggi della speranza, le violenze subite e inferte, le prove da superare. Mi sembra di poter dire, nelle mie frequentazioni del teatro sociale d’arte, che si avverte diffusa l’urgenza di trovare materiali drammaturgici adeguati a raccontare questo tempo confuso. Si ricorre al classico, naturalmente, trovandovi grandi evocazioni e rimandi ulteriori. Ma forse, ferma restando la bontà di simili ricerche, non sarebbe male inaugurare una stagione altra, dando voce proprio alle scritture e alle drammaturgie che vengono di là dal mare: per fare solo qualche esempio, recentemente, a Lecce, ho avuto modo di incontrare tre autori – la palestinese Adania Shibli, l’iraqeno Ali Bader e il marocchino Mohamed Moksidi – che scrivono, e bene, per il teatro.
Intanto, però, iniziative come Argonauti di Reggio Emilia sono un segno tangibile, concreto, condiviso di un teatro che affronta le questioni spinose del presente e prova a dare risposte, quantomeno segnali, che hanno valenza non tanto e non solo comunitaria, ma anche artistica. Il tutto senza dimenticare la possibile riqualificazione “sociale”, verso una comunanza possibile, e la riscoperta del territorio, grazie a un percorso che spinge il numeroso pubblico (oltre trecento persone, tanti bambini) in zone anche meno conosciute della città.
Nell’affollato e “mescolato” gruppo di giovani interpreti – già ipotesi concreta di una società che vorremmo: si parlano tutte le lingue, si lavora assieme – spicca un Giasone nigeriano che ha energia e presenza scenica da vendere. Mi dicono che abbia appena 19 anni, fa il gommista e viene dalla Nigeria. Solo lui sa quel che ha attraversato per arrivare qua. Però, in un breve incontro dopo lo spettacolo, dice sorridendo in italiano: «con il teatro ho riscoperto la mia lingua, la mia storia, il mio paese, che pensavo di dover dimenticare». Il teatro, insomma, sempre di nuovo come recupero della memoria, privata e collettiva; come incontro aperto, franco, tra giovani generazioni; come possibilità di una “catarsi” nuova e diversa che potrebbe passare proprio nella creazione di altre forme di cittadinanza attiva. Probabilmente è ora di spingere il concetto aristotelico verso significati più aggiornati e pregnanti.
Lo spettacolo prende vita sotto un grande albero-totem. Arrivano questi giovani e giovanissimi, biancovestiti e truccati con segni antichi, tribali e si accostano: con un grande bastone tracciano un segno in terra che è confine, e poi ti si piazzano davanti. Una ragazzina dagli occhi splendidi e il sorriso disarmante mi domanda: chi ti ha insegnato qualcosa? Lei racconta un aneddoto della sua vita, io farfuglio una risposta. Poi arriva un ragazzo giovane e fiero. E poi ancora una donna che parla con accento francofono. Un riccetto con la cadenza emiliana racconta che il nonno gli ha insegnato a vendemmiare. Sono – saranno – loro gli argonauti. Una truppa di sognatori.
Guidati da un tamburo e da strumenti a fiato che alternano suoni marziali a melodie popolari (le musiche sono di Gaetano Nenna e Antonella Talamonti), si avvia il corteo. Le stazioni sono diverse: l’addio alla madre prima della partenza, il viaggio scandito da un oh-oh che è il ritmo dei vogatori, l’arrivo in un cortile (la Camera del Lavoro, con appesi i ritratti dei grandi sindacalisti di un tempo che fu: ah che nostalgia!) dove si snocciola il rap di un generale e ancora la strada per andare alle battaglie finali, fino all’incontro di Giasone e Medea, sin troppo melenso. Impossibile citare tutti i partecipanti a questa avventura: giovani di seconda generazione, migranti, rifugiati, italiani che con gioia danno il proprio contributo.
Il mito fa da robusta traccia, ma sono le contaminazioni a essere interessanti in questo Argonauti: è il pubblico, con quei bambini cinesi seduti in terra entusiasti, le famiglie degli immigrati, le associazioni, i reggiani attenti e partecipi. Il gran finale, con festa da ballo (rigorosamente sulle note di un liscio) mette tutti assieme. I sogni, qualche volta, si realizzano.
Per quel che mi riguarda, avverto sempre più bisogno di senso a teatro, di partecipazione reale, di condivisione: di un teatro che tracci mappe alternative, schiuda possibilità, si offra alla partecipazione. Penso al bellissimo Inferno delle Albe, alla festa popolare fatta recentemente da Koreja Teatro in piazza, ma sono tanti gli esempi che si potrebbero evocare.
Lo diceva già Schechner: al massimo del formalismo corrisponde il minimo di partecipazione, e viceversa. Ma al di là di qualche sequenza non riuscitissima (capita), c’è un teatro che si arricchisce, oggi più che mai, di vita. Mi torna in mente il viaggio dell’Odin in Salento: le immagini in bianco e nero che sono rimaste di quell’esperienza di metà anni Settanta sono toccanti. Oggi, come allora, il teatro può (faticosamente, coraggiosamente, utopicamente) provare a tessere le trame di una vita civile. Grazie alle parole, l’ascolto, al guardarsi negli occhi. Un tentativo di risposta collettiva per problemi collettivi. Con buona pace di quanti pensano ancora che il disfacimento sociale sia un problema individuale, e di quei mezzi leader politici che vorrebbero armare tutti gli italiani per difendere il proprio tinello.
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