Teatro
A proposito di teatro: riflessioni
C’è un solo modo di leggere, ascoltare e guardare il teatro? Lo si scrive e lo si mette in scena solo perché un pubblico lo ascolti e lo guardi? E’ possibile che, invece, lo si scriva e lo si metta in scena anche per chi lo scrive e per chi lo mette in scena, vale a dire per il teatrante? Esiste l’autoanalisi del teatrante? E non mi riferisco solo a commedie come Questa sera si recita a soggetto, di Luigi Pirandello, o a L’impromptu de Versailles di Molière (un capolavoro assoluto!) o a El gran teatro del Mundo di Calderón de la Barca (altro capolavoro!). E gli esempi potrebbero moltiplicarsi: El arte nuevo de hacer comedias di Lope de Vega, L’illusion comique di Corneille, Kean di Alexandre Dumas padre (e potrebbe essere la pièce che assomiglia di più al testo di cui tra breve si dirà, se non altro per il fatto di riguardare un attore di essere scritta in francese), L’arte della commedia di Eduardo. A suo modo anche il Turco in Italia di Felice Romani e Gioachino Rossini è teatro nel teatro, rappresentazione di una recita mentre si sta attuando.
Ma su questo si è detto e scritto moltissimo. Non è del teatro nel teatro o del teatro sul teatro che si vuole qui scrivere. Né recensire uno spettacolo già recensito più volte. Ma riflettere proprio sul teatro guardato dal teatro, nel teatro, dentro il teatro. Che non è la biografia più o meno drammatizzata di un drammaturgo o di un attore. Come se ne sono viste e se ne vedono tante sia al cinema che a teatro. Ma si vuole scrivere proprio della vivisezione del teatro, dell’autoanalisi del teatro. Sia pure attraverso lo specchio deformante – e come se deformante! – di una grande attrice, anzi: di un’attrice “immortale”. Sì, lei la “divina Sarah”, e cioè Sarah Bernardt. Proust non l’amava. Nella Recherche le preferisce un’altra. E non l’amava nemmeno Hofmannsthal, che le preferiva Eleonora Duse. Ma Oscar Wilde l’adorava e scrisse per lei, in francese, la sua Salomé, poi messa in musica da Richard Strauss, nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann. E non poteva essere diversamente. L’adorava anche il giovanissimo e geniale pittore ceco di locandine teatrali Mucha, il cui nome sarebbe da pronunciarsi con l’occlusiva aspirata, e accento sulla u, ma finì per francesizzarsi, con immutata ortografia (Mucha), e pronunciato Muscià. Sublime quella del tour americano, che riproduce un’icona dei suoi anni migliori.
“It is the summer of 1922, the twilight of Sarah Bernhardt’s career”, recita la copertina della commedia Miroir di John Murrell. Eric-Emmanuel Schmitt la traduce in francese, ma la teatralizza a suo modo, di fatto ri-scrive una commedia francese sul senso del teatro. C’è perfino il tradizionale personaggio del confidente, il segretario Pitou. Sarah Bernardt e il suo segretario, Pitou. Appunto, rievocano i momenti decisivi della vita dell’attrice. Sarah sempre sé stessa, e le diverse autorappresentazioni di sé stessa, Pitou impersona invece per lei via via la madre dell’attrice, la badessa del convento dove fu chiusa da bambina, il suo scurrile agente americano, gli amanti, il marito, Oscar Wilde. “Hanno detto di me che sono immortale”. “Lo sei”, risponde Oscar Wilde. “Hanno scritto tante cose di voi” dice Pitou: “perfino che avete dormito in una bara di mogano”. “Menzogne!” salta su Sarah: “Non era di mogano! Ho sempre detestato il mogano”.
In questi dialoghi in cui l’attrice è sempre sé stessa, o meglio la rappresentazione di sé stessa, vale a dire una donna sul filo di rasoio tra il suo essere donna ed essere attrice, e il suo segretario Pitou, il quale è invece di volta in volta un personaggio diverso, e quando è sé stesso, appare insofferente dei soprusi sia della donna sia dell’attrice. Ma deve cedere, obbedirle, e indossare i personaggi della sua memoria, per farli rivivere, farli rivivere per lei, ma in parte, forse, anche per sé. Tuttavia la recita familiare, tra lui e l’attrice, fa rivivere ogni volta il fallimento dell’incontro.
Un fallimento vivono, infatti, la madre, un fallimento tutti gli amanti e il marito, un fallimento perfino l’esteta e il teorizzatore dell’estetismo, Oscar Wilde, che scrive per lei un testo che la censura vittoriana non permette di portare sulle scene; un fallimento che Pitou le rappresenta di nuovo in atto, e in cui l’attrice, o piuttosto la donna sopraffatta dall’attrice, riconosce rispecchiato il fallimento della propria vita. Nel fondo di una coscienza che non vuole vedersi, che sfugge a sé stessa, sono di fatto rievocate le memorie di una vita fallita, di una vita in cui la donna non c’è mai stata, ma c’è stata sempre e solo l’attrice, che ha recitato anche il proprio ruolo di donna. E dunque il testo è la rappresentazione, piena di malizia, di una rappresentazione: alla lettera quella che l’attrice mette in scena di sé stessa anche alla fine della propria vita, anche nell’intimità della propria vita recitata insieme al proprio segretario, e dunque nell’assenza di una veramente propria vita intima. Ma metaforicamente la rappresentazione può essere interpretata come la rappresentazione della vita di ciascuno di noi, di quello che ciascuno di noi mette in pubblico di sé stesso, in pubblico perfino quando è di sé stesso l’unico spettatore. Uno, nessuno e centomila? Forse. E sarebbe di nuovo teatro, ma filtrato da un romanzo, ch’è la premessa di molto teatro. Magari, allora, Così è se (vi pare). Ma no! Nemmeno questo.
« Tout m’afflige et me nuit, et conspire à me nuire » . Phèdre ! « Insensée , où suis-je ? et qu’ai-je dit ? » Non solo il più grande personaggio femminile del repertorio tragico francese, ma una sorta di rinnovabile autoritratto per qualunque attrice: nuovo per ogni volta che un’attrice lo recita sulla scena. In quel punto l’attrice è sé stessa, Fedra, e insieme anche l’attrice. Ecco il labirinto che il “dialogo” di Schmitt ci dipana sulla scena.
Dialogo che è in fondo un monologo, perché Pitou non è quasi mai sé stesso, ma sempre lo specchio di Sarah, in cui Sarah non specchia in realtà sé stessa, ma le molteplici immagini in cui crede di specchiarsi. L’amputazione della gamba non le impedisce di andare in scena. Ha recitato anche con la protesi. Ma non con la frequenza che desidererebbe, non per impersonare Margherite Gauthier, o Amleto, o uno qualunque dei 150 personaggi interpretati nei suoi 50 anni di teatro. Adesso ha 27 anni, anzi no, si corregge, 26: ma solo nel “mémoire” che rievoca, ricostruisce, riscrive e recita con il suo segretario, anzi che gli detta, lo straccia e lo ridetta. Figlia, come Fedra, del Sole che tramonta e che, come tutte le stelle, morirà. Ma che gioia sapere che anche l’universo è mortale! “Mais non, Madame!” le direbbe Oscar (Wilde, naturalmente!): “Vous n’étes pas mortelle. Je l’ai dit. Vous étes immortelle!” Poeta, e dunque maestro di menzogne. Ma sono queste menzogne a fare la vita, a fare la poesia, a fare il teatro. E allora: merde! Je vais finir ma comédie. Je vais finir ma vie.
Lo spettacolo gira da più di un anno per l’Italia. Io l’ho visto a Roma, al Teatro Vittoria, nel quartiere di Testaccio. Un quartiere che è esso stesso un quartiere che si rappresenta, l’autoanalisi di un quartiere, un teatro, un quartiere teatro. Il fiume Tevere, e il Ponte Sublicio a poca distanza: millenni di acqua fulva (cioè fangosa, sporca, come la vita) sotto il ponte. Poco lontano, sul lungofiume, a Tordinona, un teatro scomparso (come scompare la vita), il Teatro Apollo: Trovatore, Ballo in maschera. Rieccoci, di nuovo le maschere. E il ballo della vita con la morte.
Una maschera indimenticabile Anna Bonaiuto che veste i panni della divina Sarah. Ma anche i panni di sé stessa che veste i panni di Sarah Bernardt, di un’attrice, l’attrice che recita sulla scena l’attrice che mette in scena sé stessa. E non solo per le duttilissime sfumature espressive del viso, ma per la modulazione della voce, il ritmo, si direbbe il fraseggio della recitazione, come se il testo fosse una partitura musicale. Accanto a lei, non meno duttile, non meno trasformista, Gianluigi Fogacci nei panni di Pitou. E quindi della madre di Sarah, dei suoi amanti, dell’agente americano, di Oscar Wilde. “No, quello no, quello è un uomo che non è un uomo”. Ma poi la fa, e divinamente, per la divina. Bisogna sentirlo, il suo sussurro nelle orecchie dell’attrice: “Voi lo siete!” Immortale, sottinteso.
La regia è costruita, con certosina precisione, da Marco Carniti. Pochi elementi, e mobili, costituiscono la scena, un fondale di cartapesta – ma perché no? Lo volevate vero? E dove finisce, allora il teatro? – finge la riva di un’isola, il mare che si ode registrato e rovesciato sul pubblico dagli altoparlanti. Il canapé, il giradischi con la grande tromba, gli abiti belle-époque un po’ sfilacciati, da sartoria teatrale di second’ordine, la coperta d’orso vistosamente artificiale: dove finisce la rappresentazione e comincia la vita? Il pubblico ride alla battute, ma spero che poi tornando a casa rifletta su ciò che ha sentito, visto, sulla finzione che ciascuno recita di sé stesso, mica solo le attrici, fossero pure le divine.
C’era tanti anni fa, qui, a Roma, alle porte del Vaticano, in una traversa di Via della Conciliazione, un teatro, i cui spettacoli erano tutti imperdibili, e io non me li sono persi, un teatro dove accorrevano, insaziabili, scrittori, attori, giovinastri in vena di sbeffeggiare i guitti o, meglio, quello che loro credevano guitti. C’era Arbasino, e venivano molti scrittori, ma anche tutto il mondo teatrale romano e anche quello non romano, se passava per Roma. Vi recitava la compagnia D’Origlia Palmi. Si rappresentavano, spesso, vite di martiri e di santi. Paolo Poli vi rubò più di uno spunto per la sua Santa Rita. Vidi, una volta, una messa in scena di Come le foglie di Giacosa. Gli sbeffeggiatori ridevano. I teatranti anche, ma si commuovevano. Perché nella loro ingenua finzione, nell’approssimazione anche dilettantesca della recitazione, quello era vero teatro. Come il teatro dei burattini al Pincio. Il segreto è semplice: gli attori della compagnia D’Origlia Palmi sapevano, volevano, amavano fare teatro, ma non s’illudevano che quel teatro fosse la vita, la verità, e nemmeno la perfetta imitazione della vita, bensì, semplicemente, sapevano ch’era la vita come la si rappresenta a teatro, che forse è più vita della più realistica delle messe in scena.
Ecco: non la ricerca, l’illusione dell’imitazione perfetta, è teatro: bensì la recita consapevole della finzione. Il segreto sta tutto in questo, in questa consapevolezza: non già credere di recitare la vita, bensì sapere che se ne sta rappresentando la sua finzione.
La Divina Sarah
di Éric-Emmanuel Schmitt, da Memoir di John Murrell
con Anna Bonaiuto e Gianluigi Fogacci
regia di Marco Carniti
produzione Teatro e Società
Roma, Teatro Vittoria
Devi fare login per commentare
Accedi