Teatro

A Genova e Torino: il teatro prima dello spettacolo

2 Marzo 2017

Ho avuto la fortuna, nell’arco di pochi giorni, un paio di settimane fa, di assistere al teatro “prima dello spettacolo”, ossia di essere ammesso a due diverse sessioni di prove, di altrettanti allestimenti, a Torino e Genova.

Il primo, in ordine cronologico, è stato Sogno d’autunno, testo di Jon Fosse diretto da Valerio Binasco per lo Stabile di Torino, e il secondo è Il Gabbiano, di Cechov, con la regia di Marco Sciaccaluga per lo Stabile di Genova.

Nel frattempo gli spettacoli hanno debuttato, dunque hanno assunto compiutezza e forma, certo differente da quella delle prove, ma mi piace provare a raccontare il clima, le suggestioni, gli spunti che arrivavano dalle prove. Perché, e voglio dirlo, il “miracolo della creazione” esiste eccome! E cogliere l’istante in cui avviene, il momento in cui un bozzolo di idea diventa una farfalla tutta teatrale è bellissimo. Si intuisce la meraviglia in mutamento e assestamento. Il processo delle prove è affascinante e spiazzante, nella sua natura grezza eppure già felicissima. Soprattutto quando si ha a che fare con attori che hanno la sapienza del mestiere, che sanno il teatro, lo sanno vivere e incarnare.

Nell’epoca della “riproducibilità amatoriale” dell’arte – quanti amatori della ricerca abbiamo in giro, no? – ritrovare i fondamentali della prassi scenica è gratificante, così come confrontarsi con drammaturgie aperte, profonde, complesse, stranamente e sottilmente legate come quelle di Fosse e Cechov.

Di Jon Fosse molto è stato scritto e detto: lo stesso Valerio Binasco è un attento studioso e frequentatore di quella drammaturgia, avendo allestito, in passato, ben quattro drammi dell’autore norvegese. Sogno d’autunno è un commovente affresco, a tinte meste, soffuse, che porta in primo piano la vita semplice di un uomo, alle prese con la propria esistenza, con le scelte fatte o da fare. Si confronta con una donna del passato, una giovane donna per la quale decide – finalmente – di mollare tutto e tutti: i genitori invadenti, la moglie petulante, il figlio sfortunato.

Di Mauro e Mezzogiorno, foto Bepi Caroli

Ma ogni scelta porta con sé delle inesorabili conseguenze. Alle prove, nel bellissimo spazio decentrato delle Fonderie Limone di Moncalieri, Valerio Binasco, di cui da tempo apprezziamo moltissimo la prospettiva artistica, dirige con passione e instancabile partecipazione le prove: entra e esce di scena, suggerisce, mostra, spiega, interroga, accoglie proposte e soluzioni, ride, si diverte. Coglie, in forma ironica, la drammatica vicenda, con l’intuizione di una “leggerezza” sempre sul filo del melodramma: tant’è che per me, osservatore non troppo distante, la storia invece trasmette un magone da condivisione e compassione immediata.

In prova, Michele Di Mauro è stato bravissimo: basta un gesto accennato, la testa appena reclinata sulle spalle, per trasmettere i sogni e le frustrazioni di questo “borghese piccolo piccolo”. Accanto a lui, è la splendente Giovanna Mezzogiorno, alla sua terza prova teatrale in carriera – dopo un debutto alle Buffes du Nord con Peter Brook e un affondo nella scrittura aspra di Sarah Kane, in 4,48 psichosys diretto da Piero Maccarinelli. È sorniona, ascolta, osserva: sembrava una tigre in gabbia. E infatti improvvisamente esplode, in zampate di ferocia e tragedia notevolissime.

Sogno d’autunno, foto di Bepi Caroli

Poi, nel cast, la travolgente Milvia Marigliano, nel ruolo della madre tutta pathos e frecciatine; Nicola Pannelli padre rancoroso e burbero ma buono; un’intensa Teresa Saponangelo che dà alla moglie dell’Uomo una sincera adesione. Nello spazio enorme di Moncalieri, avevo l’impressione di trovarmi di fronte a una foto ingiallita, a una qualche pathosformeln dell’immaginario collettivo, insomma a una storia condivisa; una sottile, suadente, struggente immagine della vita di ciascuno di noi. Tutto in sospensione, tutto rarefatto, eppure qualcosa di struggente nella sua normalità, nella sua banale e dolorosa follia.

Per questo, forse, la scrittura di Jon Fosse potrebbe evocare – e in parte evoca – quella del gigante Anton Cechov. Marco Sciaccaluga, presentando questo allestimento genovese del Gabbiano, dice che lo scrittore russo sembra osservare l’Umanità e dire, più o meno: “fate, facciamo, schifo: però vale sempre la pena amarsi, volersi bene, provare a vivere”. Ed è proprio quel clima di oscena mediocrità dell’umano a fronte alla bellezza assurda della vita che Sciaccaluga mette bene in risalto, in un allestimento dal gusto certo classico ma arioso, ampio, sapientemente corale.

Tommaso Ragno e Elisabetta Pozzi, foto Maritati

Qui, tra l’altro, c’è una novità che è un ritorno al passato: viene usata, infatti, la prima edizione del testo, quella messa in scena nel 1895 (con relativo insuccesso) prima dei tagli della censura e prima che ci mettesse le mani quel regista, di un certo talento ma un po’ invadente, chiamato Kostantin Stanislasvskij. Una edizione, insomma, ottimamente tradotta da Danilo Macrì, che riserva qualche sorpresa (soprattutto per chi conosce più o meno a memoria, l’edizione di Mosca, poi diventata quella abitualmente usata).

Spiccano, in prova, tre presenze: il Trigorin di Tommaso Ragno, un attore che sta meravigliosamente toccando vertici interpretativi nuovi, una maturità diversa rispetto al suo percorso, anche recente; poi la feroce Arkadina di Elisabetta Pozzi, terrena e potentissima; infine la Nina che Alice Arcuri fa donna intraprendente, decisa, diremmo forse “in carriera”, ossia consapevole di ciò che vuole, fino allo sbandamento dell’ultimo atto.

Con loro, merita ogni attenzione il Kostia vibrante del giovane Francesco Sferrazza Papa, per me una graditissima sorpresa: con una battuta, ad esempio, riesce a far pensare al Norman Bates di Psyco, dando al personaggio inquietudini tutte nuove.

Sferzata Papa e Alice Arcuri, foto Maritati

In scena anche Federico Vanni di forte presenza come Sorin; Roberto Alinghieri, che è il pedante e divertente Samraev; la brava Mariangeles Torres; Eva Cambiale, che è una aspra Masa; Giovanni Franzoni, un Dorn gigione eppur disincantato. E ancora Kabir Tavani e Andrea Nicolini, che fa bene del maestro Medvedenko un inacidito ossessionato dal denaro.

Ecco, il denaro: quanto si parla di soldi, in Cechov. Lo sappiamo, l’abbiamo sempre saputo, ma quei rubli di allora (euro o dollari di oggi) sono l’ossessione che ci perseguita, sono il metro di ogni esistenza. Per sfuggire alla dittatura del denaro non restano che i sogni, ma ormai lo sappiamo: durano poco, come le “nuove forme” inseguite, spasmodicamente, da Kostia. Del teatro non resta che uno scheletro sbattuto dal vento in riva al lago di una campagna lontana: non resta che il senso ridicolo di un piccolo mondo devastato da vane speranze e disagio, da tenerezze e orrore, amori non corrisposti e desideri languidi, da ambizioni e frustrazioni, egoismi, piccinerie, rivalità spicce.

È l’umanità di Cechov, o ancora la disumanità di Jon Fosse: stiamo qua, ancora, a raccontarci per quel che avremmo voluto essere e non siamo.

 

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